martedì 15 settembre 2009

Il globo, la mappa, le metafore (iii / vii)

Franco Farinelli


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Il globo, la mappa, le metafore


                          Pieter Bruegel, La Torre di Babele, 1563. Kunsthistorisches Museum, Vienna

Da piccoli non ci hanno insegnato nulla. O meglio, ci hanno insegnato a fare le cose senza avere più nessuna memoria del loro significato. Nessuno ci ha mai spiegato che ogno volta che squadriamo un foglio produciamo lo spazio, e torniamo perciò come Ulisse ad accecare Polifemo. Prima tracciamo due diagonali, da un capo all'altro opposto in maniera che esse risultino incrociate. Il punto di incontro, il centro, è l'occhio del ciclope, la metà superiore della prima diagonale è il tronco d'ulivo, quella inferiore della seconda il corpo steso a terra del gigante. La metà superiore di quest'ultima e quella inferiore della prima, ambedue nella stessa metà del foglio, sono ottenute per simmetria bilaterale, la stessa che Ulisse evoca aprendo le braccia e comandando ai suoi di tagliare il tronco d'ulivo secondo la loro lunghezza. quindi prendiamo il compasso, arnese che per Giordano Bruno era uno strordinario simbolo ermetico. Il segreto, di cui nemmeno più Bruno era a conoscenza, consiste nel fatto che il compasso è proprio le braccia di Ulisse, esso è il tronco d'ulivo nella sua duplice funzione di punta acuminata (lo stilo) e di strumento grafico (la punta indurita alla fiamma e perciò carbonizzata). Il primo viene codnficcato nel centro, cioè nell'occhio, mentre il secondo serve nel contempo a tracciare un cerchio, il cui perimetro incrocia in quattro punti le quattro simmetriche semidiagonali. Basterà infine unire tra loro talli punti con linee rette perché il foglio risulti squadrato, e sorga lo spazio.

Squadrando il foglio, quindi, si trasforma una superficie irregolare e che non ubbidisce alla geometria di Euclide in qualcosa di assolutamente continuo, omogeneo e isotropico, in cui le parti sono voltate nella stessa direzione. La modernità è la riduzione del mondo o, se volete, del globo, a spazio. Ci sarebbero storie straordinarie da raccontare, ne valga soltanto una.

Se si apre Il Milione di Marco Polo, ci si accorge che lo spazio non c'è. E non ci sono nemmeno le distanze, non c'è nemmeno una metrica. Ne Il Milione le cose durano. Marco Polo racconta che dopo la foresta c'è il deserto, il deserto dura cinque giorni; dopo il deserto c'è un lago, il lago dura un giorno e mezzo. Marco Polo, inoltre, non ha nessuna fretta di tornare indietro, resta lontano per diciassette anni e poi torna indietro, ma solo per combinazione, perché deve portare delle lettere del Gran Khan al Papa, altrimenti non tornerebbe. Non c'è spazio nel Medioevo, sebbene tutti, anche Paul Zumthor, ad esempio, siano convinti del contrario. Certo c'è una metrica nel Medioevo - non in Marco Polo - ma non la metrica standard lineare cui siamo assuefatti. E poiché il termine spazio deriva dal greco stadion, l'unità di misura delle distanze, bisogna sapere che ogni volta che adoperiamo il termine in riferimento alla realtà medievale stiamo usando una metafora.

La modernità invece è un'altra cosa, questa:







Paolo Del Pozzo Toscanelli, carta dell'Oceano
 

Questa ricostruzione del Wagner della fine dell'Ottocento è quanto ci resta della carta dell'Oceano di Paolo Del Pozzo Toscanelli, che sicuramente Colombo aveva con sé.

In Colombo c'è lo spazio, e per rendersene conto basta leggere ciò che resta del suo diario di bordo. Come sapete, non abbiamo più questo diario, l'ultima persona che lo ebbe tra le mani è stato Bartolomeo De Las Casas, padre gesuita, che ne ha fatto sostanzialmente quello che ne ha voluto, e noi conosciamo solamente la sua trascrizione. Nonostante ciò, è evidente che per Colombo il mondo è uno spazio. A dispetto delle amputazioni fatte nel testo, sappiamo che Colombo scrive 'oggi abbiamo percorso ventiquattro miglia'. Si esprime così, senza aggiungere altro, cioè misura lo spazio, non racconta come Marco Polo la durata del mondo.

Todorov e altri hanno spiegato che Colombo non capisce assolutamente nulla di dov'è, di quello che sta accadendo e di ciò che ha intorno, nemmeno gli interessa. Il suo problema è tornare indietro, e, a differenza di Marco Polo, Colombo vuole fare in fretta, è ossessionato dalla velocità.

Nella ricostruzione della carta di Toscanelli vi sono meridiani e paralleli e poiché parallelo significa, alla lettera, "equivalente", para-allélon [l'un l'altro], in essa tutte le cose vengono ordinate in modo che siano esattamente l'una equivalente all'altra. Che sia questa la modernità mi pare che, almeno in questa sede, non ci sia bisogno di insistere. Anche se magari va precisato come alcuni abbiano voluto intendere questa come post-modernità - un nome per tutti, Baudrillard, il quale ha tentato di spiegare la post-modernità come il fatto che il simulacro preceda il territorio. A mio parere, questa precessione del simulacro, della carta, dell'immagine rispetto alla cosa, è qualcosa che inaugura la modernità. Inoltre, personalmente credo che tale precessione si inauguri con Anassimandro, e contraddistingua dunque la cultura occidentale fin dall'origine, ma non so se avremo il tempo di parlarne adeguatamente.

Colombo, cui non interessa niente di quello che ha intorno, gioisce come un bambino quando gli pare di scorgere che la forma di alcune isole che ha di fronte agli occhi corrisponde vagamente alla forma, a quei segni che Paolo Dal Pozzo Toscanelli, il più grande cosmografo della modernità, ha tracciato sulla carta. La fiducia nel modello, nel simulacro, e nella legittimità della sua precessione rispetto alla realtà è assolutamente evidente, disarmante addirittura, se vista con gli occhi di oggi. Ebbene, questa è la fonte, l'origine, la matrice della certezza della rappresentazione. Questa è l'origine di quella certezza della rappresentazione che per Heidegger corrispondeva al sapere, alla scienza; e faceva della modernità l'epoca dell'immagine del mondo.

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Golem   -
© Franco Farinelli

 

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