domenica 23 maggio 2010

la mia lettera d'addio ai giovani poeti rivoluzionari

Michele De Mieri ,   L'Unita -21/01/2010



Probabilmente questo libro - ricco, intenso, straordinario nello svelarci uno dei più geniali scrittori di questi ultimi decenni - non sarebbe piaciuto a Roberto Bolaño. Che non poche volte espresse nella sua non lunga vita il proprio disappunto per le biografie, peggio ancora per le autobiografie: "mi sono sempre parse detestabili", lo ribadisce anche in uno degli interventi del volume, quello dedicato alle opere autobiografiche di James Ellroy e di Martin Amis.



Per una volta però possiamo non essere d'accordo col grande scrittore cileno, autore, tra l'altro, di una delle opere più originali e innovative di tutta la letteratura a cavallo tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo millennio. Per questo motivo appare una dimenticanza inusitata quella di non menzionare 2666 link interno tra i libri del decennio, così come ho visto accadere nelle liste d'occasione approntate dai distratti critici di Repubblica e del Corriere.

Il volume, curato da Ignacio Echevarría, raccoglie saggi, articoli, racconti e discorsi che Roberto Bolaño scrisse e pubblicò tra il 1998 e l'anno della sua morte, il 2003. La data è significativa perché coincide col primo grande riconoscimento alla sua opera: il 1998 è l'anno de I detective selvaggi link interno. Con la storia dei giovani e strampalati poeti sudamericani dell'estrema e improbabile avanguardia "neovisceralista", Bolaño s'impose in tutta l'area di lingua spagnola e ben presto anche al di fuori di essa. Il voluminoso romanzo, che parodiava un'indagine poliziesca intorno ad una generazione di utopici sacerdoti della poesia, vinse il più importante premio ispanico, il Rómulo Gallegos.

Fino a quel momento le opere di Bolaño - fra tutte La letteratura nazista in America link interno, Stella distante link interno e Chiamate telefoniche - avevano ottenuto un successo relativo e quasi solo tra scrittori della generazione di Bolaño e di quella successiva. Sia pure ancora isolato nella piccola cittadina di Blanes, in Catalogna, lo scrittore cileno cominciava però già ad essere un punto di riferimento per tutti gli scrittori latinoamericani, mentre ancora alternava i suoi mille mestieri ai suoi libri. Ironico e struggente insieme è proprio un autoritratto breve, poco più di una pagina, composto nel 1999 per il Rómulo Gallegos ad aprire il libro:
"Sono nato nel 1953, l'anno in cui morirono Stalin e Dylan Thomas. Nel 1973 fui incarcerato per otto giorni dai militari golpisti del mio paese, e nella palestra dove venivano tenuti i prigionieri politici trovai una rivista inglese con un reportage fotografico sulla casa di Dylan Thomas... Quella notte sognai Stalin e Dylan Thomas: erano in un bar di Città del Messico, seduti ad un tavolo rotondo, un tavolino di quelli per fare a braccio di ferro, solo che non facevano a braccio di ferro, facevano a gara a chi reggeva meglio l'alcol"

e cosi concludeva la sua autopresentazione ai giurati: "Sono molto più felice quando leggo che quando scrivo". Come Borges. Le sue letture. E che tipo di lettore sia stato Bolaño è testimoniato dalle brevi, a volte brevissime, prose critiche composte per il i quotidiani Diari de Girona e per il cileno Las últimas noticias, dove riversava notazioni fulminanti, giudizi senza appello o dichiarazioni d'amore per questo o quel libro del momento, oppure ripescava autori ormai dimenticati e ne perorava la lettura: da Gombrowicz a Rodolfo Wilcock, da César Aira a Neruda, da Cortázar a Varga Llosa fino al più amato di tutti il poeta Nicanor Parra, e ancora Alan Pauls, Pedro Lemebel, Carmen Bullosa, i suoi amici scrittori - ma mai completamente acritico - Antonio G. Porta, Javier Cercas, Enrique Vila-Matas e Rodrigo Fresán (imperdibile il breve pezzo delle trenta cose di cui parlano insieme, la pag 216 vi aspetta).

Il lettore Bolaño scruta magnificamente anche in Melville e Twain, in Burroughs e Philip Dick, in Hannibal di Harris e in Meridiano di Sangue di McCarthy. Bolaño è stato, tra i 16 e 19 anni, un ladro di molti libri, ha perso nei suoi traslochi tra Cile, Messico e Spagna molti di quelli che più amava, "che mi aiutavano a respirare".

Bolaño, che si è sempre sentito più poeta che romanziere ("arrossisco di meno se apro un mio libro di poesie" dice nell'intervista meravigliosa per Playboy che chiude il libro), Bolaño che "se dovessi rapinare la banca più sorvegliata d'America, nella mia banda vorrei solo poeti. La rapina si concluderebbe in un modo disastroso, probabilmente, ma sarebbe bellissima", Bolaño che sta scrivendo il suo capolavoro nero ed apocalittico, 2666, e che in tutti questi pezzi non ne accenna mai (solo un riferimento a Sergio González Rodríguez per il suo Ossa nel deserto), Bolaño che sta morendo e per il futuro della sua patria ("La mia unica patria sono i miei due figli", scrive), Bolaño che riteneva la letteratura un mestiere pericoloso...

Tutto Bolaño, il suo mondo prima del baratro finale di 2666 è contenuto in questo Tra parentesi: vita e letteratura qui non sono mai separate, corrono con ironia e disperazione verso la fine. Nel discorso di Caracas per il Rómulo Gallegos così Bolaño sintetizzava la sua opera:
"Tutto quello che ho scritto è una lettera d'amore o d'addio alla mia generazione, alla generazione di noi che siamo nati negli anni cinquanta e che ad un certo punto abbiamo scelto l'esercizio della milizia, nel nostro caso sarebbe più corretto dire della militanza, e abbiamo consegnato quel poco che avevamo, che era molto, perché era la nostra gioventù, a una causa che credevamo la più generosa del mondo e che in certo senso lo era, mentre in realtà non lo era. L'intera America Latina è seminata con le ossa di questi giovani dimenticati".
Ieri i giovani poeti rivoluzionari oggi le giovani donne massacrate a Ciudad Suarez.
Roma, © micheledemieri@libero.it


l'articolo su Archivio Bolaño

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