sabato 1 maggio 2010

recensione di 2666

  Nedo Bandiscifeti senza soste - 11 Maggio 2009


Il nome di Roberto Bolaño è ancora poco noto in italia, diversamente da paesi come la spagna o dai paesi dell'america latina, dove lo scrittore, morto a cinquant'anni nel 2003, è già considerato un mito letterario.
Bolaño nasce nel 1953 in cile, trascorre l'infanzia in messico e torna nel suo paese quattro mesi prima del golpe di pinochet. incarcerato per aver preso parte alla resistenza, riesce a fuggire in Spagna, [*]dove continuerà a coltivare il sogno di una poesia del tutto innovativa (fonda insieme ad altri compagni della resistenza cilena il movimento infrarealista), trascurando la prosa, che a suo dire serve solo agli scrittori vanitosi per essere recensiti da altrettanto vanitosi critici. dai primi anni '90, poiché si è sposato ed ha avuto un figlio, si dedicherà anch'egli alla prosa, per far fronte alle spese familiari. da questo momento comincia un fiume di romanzi e racconti unici.
 
2666 è un libro immenso. non solo per la quantità (più di mille pagine), ma anche per il respiro che ne segna il ritmo, attraverso una massa narrativa enorme, che lo scrittore gestisce e sbroglia con abilità. 
 
Suddiviso in cinque parti (la parte dei critici, la parte di amalfitano, la parte di fate, la parte dei delitti, la parte di arcimboldi), il libro racconta di quattro critici europei della letteratura, che si mettono sulle tracce del leggendario romanziere tedesco benno von arcimboldi, che nonostante i suoi 80 anni e gli innumerevoli romanzi pubblicati, nessuno, tranne il suo editore, ormai morto, può dire di aver incontrato o anche solo visto. i critici vanno alla ricerca del loro maestro con un atteggiamento cannibalesco, spinti dalla necessità di sapere, dalla volontà di conoscere tutto del loro uomo, una volontà sopraffatta solo dal sesso e dal rapporto morboso che si instaura fra l'unica donna del gruppo e gli altri tre, fra cui uno, l'italiano, costretto sulla sedia a rotelle da una malattia degenerativa. a un certo punto gira voce che arcimboldi si trovi a santa teresa, città messicana al confine con l'arizona, circondata dal deserto del Sonora. uno dei professori dell'università di santa teresa è Amalfitano, vedovo, che vive assieme alla figlia ventenne in una casa ai margini del deserto - o della città - e che dopo la morte della moglie per aids (un bel giorno se ne era andata assieme al suo poeta preferito, poi internato in manicomio e l'aveva aspettato fuori dal manicomio per settimane, senza mangiare né dormire al chiuso, e poi finalmente si era trasferita a barcellona, dando sfogo a sua volta alla sua pazzia fatta di sesso e viaggi a piedi per mezza europa) trascorre una vita in bilico tra follia e rassegnazione. 
 
Ma c'è una cosa che preoccupa Amalfitano, e che era già stata appena accennata nella parte dei critici: a santa teresa, da quasi dieci anni, giovani donne e perfino bambine spariscono e  vengono poi ritrovate, strangolate e violentate, nel deserto, o ai margini della città, nelle sue parti più buie, non asfaltate, sommerse dai rifiuti delle discariche abusive dove gli stessi mezzi del comune vanno a gettare la spazzatura.
 
Questa parte sul professore di filosofia messicano descrive, senza pretese di costruzione di un personaggio moralmente significativo, la solitudine di un uomo in modo commovente. questa è la parte del libro forse più poetica. e questa parte si conclude così, con amalfitano, svuotato o riempito dalla sua pazzia di padre attento ed ex marito che non ha mai rinfacciato nulla alla moglie che lo ha lasciato, preoccupato per la figlia e per quello che succede a santa teresa. 
 
La parte di fate racconta di oscar fate, giornalista nero americano, inviato in messico per fare la cronaca di un incontro di boxe, ma incappato nella cronaca ben più dura delle morti violente di santa teresa. 
 
Ed è di questo che si occupa la parte dei delitti. una ricostruzione storica basata sui fatti (perché la storia delle centinaia di donne violentate uccise e gettate a marcire nella spazzatura a ciudad juarez, vero nome della città di fantasia santa teresa, è storia vera, anche se poco nota, del messico degli anni '90: una serie interminabile di omicidi mai puniti, su cui chi ha indagato, come il giornalista sergio gonzalez rodriguez [1], amico di bolaño e da questo inserito nella parte dei delitti come personaggio che porta avanti la propria inchiesta, ha scoperto solo depistaggi, corruzione della polizia messicana, insabbiamenti e inettitudine degli inquirenti), più di trecento pagine di racconto impietoso, condotto con lo stile asciutto del reportage, attraversato da alcuni momenti fulminanti, come la commozione per la bambina di undici anni, impiccata dal suo aguzzino, o la considerazione della prostituta messicana, che al cliente che le dice di stare attenta per via del serial killer delle puttane, fa notare che chi uccide, qualunque sia il motivo, non va a cerca di puttane, ma di giovani operaie. 
 
Nell'ultima parte fa la sua comparsa il personaggio misterioso, benno von arcimboldi, e si spiegano i legami finali con le altre parti. La storia dello scrittore tedesco è veramente ben costruita, credibile ma tutt'altro che scontata o banale, intensa, cruda come lo è stata la parte dedicata ai delitti seriali, ma anche di nuovo ricca di momenti poetici. Tutti i momenti poetici del libro, tra l'altro, hanno a che vedere con le relazioni tra le persone che vengono rappresentate sulla scena di questo libro magmatico: è nei rapporti, a volte deliranti, a volte solo molto intimi, tra i personaggi, che si svelano il dolore e la solitudine di quelle che sembrano anime vaganti tra il nuovo e il vecchio mondo, incapaci di integrarsi nelle forme di una realtà impietosamente descritta come un orrore senza capo né coda, dove la Storia è solo l'apparenza intellettualistica di uno schifo, di una violenza, di una barbarie che si ripetono senza fine e ovunque nel mondo, dalla germania nazista dove è cresciuto il piccolo arcimboldi al messico dei nostri giorni, in cui bambine operaie di undici anni vengono uccise e mutilate dalle mani di ricchi ignoti annoiati che forse fanno la spola tra Usa e messico alla ricerca di sangue fresco. 
 
L'immenso libro di bolaño finisce senza che si risolva alcunché: lo scrittore rende omaggio ai grandi scrittori dell'ottocento, come hugo, o dostoevskij, mostrando di saper gestire un'immensa massa narrativa (tantissimi personaggi e fatti e racconti minori all'interno del flusso principale del racconto) senza mai perdere il filo, ma diversamente dal grande romanzone dell'ottocento, anziché giungere a quel punto di catarsi finale, dove ogni nodo viene sciolto e tutti i rivoli confluiscono in una sorta di centro predestinato - la fine - bolaño abbandona la trama senza ricucirla definitivamente, senza chiuderla, senza rassicurare nessuno dei mille sentimenti di inquietudine che ha saputo destare nel corso del libro: quel che resta è un ordito sfilacciato, come lasciato cadere.
E resta l'immagine di baudelaire, che bolaño cita all'inizio dell'opera: un'oasi di orrore in un deserto di noia.
 
R. Bolaño, 2666, Adelphi, 2006-2008 (2 volumi)

[1]    Sergio Gonzales Rodriguez ha scritto un libro su questo, tradotto per Adelphi, "Ossa nel deserto"

[*]: in realtà Bolaño viene imprigionato nelle carceri di Pinochet per 8 giorni. Grazie all'aiuto di due guardie, ex compagni di scuola dello scrittore, viene scarcerato e riesce a tornare in Messico, dove fonderà insieme al poeta Mario Santiago l'infrarealismo . Per maggiori dettagli l. l'intervista di Lateral

Nessun commento: