domenica 20 giugno 2010

nel nome di saramago

Massimo Rizzante - unitn nr 7 - 20 maggio 2010


Nel nome di Saramago


Dagli esordi a Todos os nomes: José Saramago
racconta la nascita della "scrittura orale"
e dei suoi personaggi senza nome.
Riflessioni inedite del Premio Nobel 1998 per la letteratura.

Pomeriggio di giovedì 8 ottobre [1998, n.d.c.]. Rientrato a casa, dopo il lavoro all’università, squilla il telefono. È il direttore de L’Atelier du Roman, una rivista francese con cui collaboro da alcuni anni. Da Parigi, tutto contento, mi annuncia che José Saramago ha vinto il Premio Nobel per la letteratura. Dopo un respiro profondo gli rispondo: “Finalmente è arrivato”. Mi spiega poi che secondo le ultime indiscrezioni giunte da Stoccolma via Varsavia (i polacchi in questi ultimi tempi, vedi Milosz e Szymborska, poeti premiati con il Nobel rispettivamente nel 1980 e nel 1996, devono essere degli specialisti) Saramago ha dovuto battere addirittura la concorrenza di un suo compatriota, anche lui tra i cinque finalisti, Antonio Lobo Antunes.
Insomma quest’anno il Nobel per la letteratura è stato un affare di famiglia, della grande famiglia di lingua portoghese e lusofona che annovera tra una sponda e l’altra dell’Atlantico, tra Portogallo e Brasile (senza dimenticare le isole Azzorre, Capoverde e le varianti creole africane) circa duecento milioni di parlanti e solo in questo secolo almeno una dozzina di scrittori di valore assoluto in campo internazionale. Per il Portogallo bastino i nomi di Pessoa, Miguel Torga, Vergilio Ferreira, Agustina Bessa-Luís, José Cardoso Pires, José Saramago, Antonio Lobo Antunes, João de Melo; per il Brasile mi vengono in mente, tra quelli tradotti anche in Italia, i nomi di Machado De Assis, Clarice Lispector, João Guimarães Rosa e Jorge Amado.
Ma il mio direttore gongolava nell’annunciarmi la vittoria di Saramago anche per un altro motivo. In effetti fin dal 1994 la rivista si era occupata a più riprese dell’opera romanzesca dell’autore portoghese. Lo stesso romanziere aveva apprezzato il lavoro svolto. Era diventato nel frattempo un “amico” della rivista. Saramago, inoltre, proprio in quell’anno mi aveva gentilmente concesso un lungo dialogo scritto sulla sua intera produzione, dall’esordio del 1947, quando molto giovane (Saramago è nato il 16 novembre del 1922 a Azinhaga) pubblicò il suo primo romanzo Terra do pecado (Terra del peccato, opera in seguito rifiutata dall’autore), attraverso i vent’anni di “maturazione silenziosa”, fino al 1966, anno in cui uscì il suo primo libro di poesie, Os Poemas possíveis (Poesie possibili) e che segnò la fine di quella che lo stesso scrittore definì all’epoca la sua “preistoria”. Per lui infatti la sua vera vicenda letteraria inizia solo nel 1977 (la “storia” dello scrittore incomincia significativamente due anni dopo la “rivoluzione dei garofani” e la fine del regime salazarista) con il romanzo Manuale di pittura e calligrafia, anche se le vere novità formali e quell’originalissima “scrittura orale” che contraddistinguerà per sempre il suo stile si affermeranno solo nel 1980 con la pubblicazione di Una terra chiamata Alentejo e gli varranno infine la fama mondiale nel 1982 con l’uscita di Memoriale del convento. A proposito della “nascita” di questo stile inconfondibile vorrei riportare un brano della risposta che Saramago mi diede nel 1994, un brano che mi sembra illuminante per comprendere come vanno spesso le cose dell’arte. “Come sono giunto alla scoperta di quello che viene chiamata la mia “scrittura orale”? Per quanto paradossale possa sembrare fu lei che mi scoprì. Intanto sono profondamente convinto che questo incontro non poteva avvenire se non all’interno di una storia come quella di Una terra chiamata Alentejo che racconta la vita dei contadini per i quali la comunicazione orale è stata per molti secoli la sola comunicazione possibile. Se in quel momento avessi scritto una storia cittadina, borghese, la mia `scrittura orale’ non sarebbe nata. E uso espressamente il termine nata. Prima che io riuscissi a scrivere una sola parola sulla pagina, il libro aveva vissuto in me per tre anni, anni durante i quali mi ero dibattuto con una questione formale a cui non sapevo rispondere: come evitare di cadere nei modelli neorealisti che la storia stessa sembrava richiedere? Senza essere venuto a capo dei miei dubbi mi sono rassegnato a cominciare il libro. Dopo circa trenta pagine, improvvisamente, senza poter dire come e perché, sono passato dalla mia scrittura `normale’ a un flusso verbale apparentemente senza regole, come se stessi raccontando la vita di coloro che mi avevano raccontato la loro vita”.

Dal 1982 la carriera di Saramago è stato un succedersi di prove di grande rilievo letterario e di crescente riconoscimento di pubblico e di critica in tutto il mondo. Penso soprattutto ai romanzi come Nell’anno della morte di Ricardo Reis (1984), La zattera di pietra (1986), Storia dell’assedio di Lisbona (1989) e Il Vangelo secondo Gesù (1991), ma anche alle opere teatrali, alle cronache giornalistiche e a quel Viaggio in Portogallo (1994) che per me è un magistrale invito dell’autore alla conoscenza non solo geografica, ma storica e sociale della sua terra.

Verso la fine del 1997, dopo la pubblicazione di Cecità (1995) e proprio mentre usciva in Portogallo l’ultimo romanzo, Todos os nomes (da qualche mese in libreria anche in Italia con il titolo Tutti i nomi) io e Saramago ci siamo scritti di nuovo, dando vita a un secondo dialogo sulle sue ultime opere. Negli ultimi due romanzi succede una cosa abbastanza singolare: i personaggi non hanno nome, un po’ come in Kafka. Leggendo e rileggendo questi libri mi ero convinto che l’assenza dei nomi era in un certo modo all’origine tanto dell’estetica, di quella sua “scrittura orale” di cui avevamo parlato nel 1994, quanto dell’etica di Saramago, della sua visione dell’uomo sempre in bilico tra accecamento e volontà razionale di organizzazione del mondo. Alla mia domanda sul perché il suo intuito artistico avesse deciso a un certo punto di omettere il nome degli eroi, il Nobel per la letteratura 1998 alla fine mi ha risposto: “Io credo che oggi noi stiamo perdendo progressivamente i nostri `nomi’. Ho appena finito un romanzo intitolato Tutti i nomi. Ora, malgrado quanto il titolo sembri promettere, i personaggi, eccetto uno, non hanno nome. E il solo che ne possiede uno si chiama Signor José, perché l’insignificanza della persona (e quella del suo nome) è tale che nessuno si dà la pena di ricordarlo per intero. L’epigrafe di questo romanzo non a caso dice la cosa seguente: Conosci il nome che ti hanno dato, non conosci il nome che hai”. Il romanzo allora è forse uno di quei pochi luoghi dove si può imparare a lottare contro la crescente insignificanza dell’individuo, dove si può conquistare il nostro vero nome.
Per questo esistono i personaggi senza nome di José Saramago.

Massimo Rizzante


Archivio Bolaño

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