mercoledì 4 agosto 2010

Due chiacchiere con Julio Monteiro Martins

  118libri intervista Julio Monteiro Martins

 

118libri   - - - -


Julio Monteiro Martins è un uomo dalle mille facce e i mille interessi. È brasiliano, ma da qualche anno scrive e pubblica in italiano, è docente di lingua portoghese e traduzione letteraria presso l'università di Pisa ma è anche uno dei fondatori del Partito Verde Brasiliano e avvocato per i diritti umani. Sc rive poesie, racconti, romanzi ed è il direttore di una scuola di scrittura e di una rivista letteraria on line (www.sagarana.net). È uno degli autori della corrent e “migrante” della nostra letteratura. Forse è un mago, un feiticeiro, perchè quando si legge uno dei suoi libri si ottiene l'effetto di uma messa a fuoco: tutto diventa n itido, chiaro, come se esistesse per la prima volta. Forse perchè l'obbiettivo che Julio usa è quello che di solito lasciamo sempre a casa.

Qui di seguito vi presentiamo un'insieme di domande a cui Julio ha avuto la pazienza di rispondere.


118libri. Julio, il passaporto ti definisce brasiliano, eppure nella tua vita hai viaggiato tantissimo, vivendo in luoghi e tra popoli diversi da te. Ormai da molti anni abiti in Italia e scrivi in italiano. Per te cos'è patria? E la lingua può essere una patria?
Julio Monteiro Martins. Gli scrittori hanno sensibilità molto diverse e personali riguardo al concetto di “patria”, dalla patria come cultura di origine – celebrata o contrastata nei loro libri, penso a Whitman riguardo agli Stati uniti, o a Gogol e la sua “triste Russia” –, alla patria come linguamadre, penso a Fernando Pessoa, che diceva “ la mia patria è la lingua portoghese” (ma ha anche scritto bellissimi brani poetici in inglese quando viveva nel Sudafrica). Quanto a me, che come hai detto ho vissuto ormai più della metà della mia vita lontano dal mio Brasile natale, molti paesi sono patria e al contempo nessuno lo è completamente. La parola “patria” per me ha un sapore ottocentesco, un po’ sciovinista, come Heimat, o come l’odierna “Homeland security”. Era una parola popolare e influente in un periodo di affermazione degli stati nazionali, con tutte le conseguenze terribili che conosciamo: la Prima Grande Guerra è stata una carneficina barbara e insana in nome dell’amor di patria. Comunque, ci sono anche quelli che sentono come propria patria là dove sono amati, e questo già si avvicina un po’ di più alla mia visione. Mi piace pensare che la “patria” dello scrittore sia l’insieme degli spazi soggettivi che compongono il territorio del suo inconscio creativo, con le sue regioni di luce e di ombra, con i suoi personaggi (ricordi affettivi? fantasmi?), una “patria” che alla fine traboccherà dall’ inconscio all’opera, la impregnerà e ricostruirà dentro i suoi libri questo territorio fantastico, nel quale ogni lettore sarà invitato ad abitare, finché durerà la sua lettura e oltre, nella sua memoria narrativa.

118libri. In questo momento sei uno dei maggiori esponenti della letteratura migrante in Italia. Secondo te quali sono le caratteristiche peculiari di questa letteratura “zingara”?
JMM. La letteratura migrante in Italia ha appena completato vent’anni, e forse è un po’ presto per definire le sue caratteristiche, le forme che prenderà quando la sua affermazione raggiungerà la piena maturità. Anche se in vent’anni si è costruito un patrimonio eccezionale, con centinaia di opere di valore e con addirittura una galleria di autori postumi di merito, come Egídio Molinas Leiva, Heleno Oliveira e Thea Laitef.Una sua caratteristica senz’altro è la strabiliante diversità, dovuta alla presenza di scrittori originari da decine di paesi differenti e che prima utilizzavano decine di idiomi differenti come lingua “di partenza”, anche perché qui non si tratta di letteratura postcoloniale, come è il caso della Francia e dell’Inghilterra, ma di un fenomeno ben diverso. Direi che è come una sorta di “polvere” sparsa della letteratura mondiale che si è “coagulata” in Italia, attirata dal misterioso magnetismo di questa cultura. Napoleone diceva che “geografia è destino”, e da questo punto di vista il “ponte” che è la lunga penisola italiana, attraversando il Mediterraneo da Sud a Nord, ha svolto una volta in più, storicamente, questo suo ruolo di collegamento tra mondi diversi. Penso che un’analisi retrospettiva e serena della letteratura italiana della migrazione rivelerà che questo è stato il più importante e originale movimento letterario – stavolta spontaneo, non programmatico – in questo paese dalle avanguardie del primo Novecento. Questi scrittori creano in pratica ogni giorno, e noncuranti dell’ostilità della politica o del silenzio dei media, la nuovissima Italia trasculturale, in sintonia con i tempi, con tutto quello che accade oggi oltre i suoi confini.

118libri. La letteratura migrante è anche poesia migrante? Qual è il ruolo della poesia all'interno di questa letteratura? E, per la tua esperienza, che momento sta vivendo la poesia a livello universale?
JMM. Molti degli autori migranti più importanti sono soprattutto poeti, anche se qualcuno produce pure opere in prosa. Oltre a Heleno Oliveira, già menzionato, morto nel 1995, potrei citare Božidar Stanišic, Lidia Palazzolo, Ghezim Hajdari, Gregorio Carbonero, Arnold de Vos,Barbara Pumhösel, Hasan Ayita Al Nassar e Barbara Serdakowski, Eva Taylor e molti altri. L’anno scorso è uscita un’eccellente antologia di poesia migrante curata da Mia Lecomte per la casa editrice Le Lettere, di Firenze, intitolata “Ai confini del verso”. Non c’è dubbio che oltre all’ottima fattura stilistica, è presente lì da sempre uno spessore umano – psicologico ed esistenziale – raramente ritrovabile nella poesia italiana di oggi, e non solo. Il dramma dell’esilio, il trauma della migrazione – questo “suicidio amministrato” – che i poeti condividono, è responsabile in parte di questo spessore. Il dazio nella forma di dolore che il poeta ha dovuto pagare in passato gli è ora restituito sotto forma di profondità emotiva e sintesi poetica. L’apprendistato tardivo e consapevole, appassionato, della nuova lingua poetica adottata, a sua volta, è responsabile dell’alta qualità formale di questa poesia. Quanto alla poesia oggi a livello mondiale possiamo seguire delle tracce simili: la grande poesia è quella scritta da outsiders, da stranieri e da esseri marginali, che scrivono dal “di fuori” della mainstream culturale e sociale, poeti che rifiutano il sistema convenzionale e sono da esso respinti: migranti, ma anche omosessuali, indios, abitanti dei sottoboschi delle metropoli, minoranze etniche, rivoluzionari, tossicodipendenti, asceti, popoli in via di estinzione, popoli in via di emersione.

118libri. Victor Jara in una sua famosa canzone dice “Yo no canto por cantar / ni por tener buena voz / canto porque la guitarra / tiene sentido y razón”. Questi versi mi hanno fatto pensare a un'intervista di qualche anno fa durante la quale hai affermato “la letteratura non è uno svago né un ornamento, bensì una potente forza di trasformazione sociale “. É ancora valida oggi quest'affermazione?
JMM. È validissima. Oggi ancora più di prima, tra l’altro perché la letteratura è rimasta l’unico “discorso” in grado di contrapporsi al discorso egemonico della pubblicità e della propaganda, l’unico a proporre la complessità al posto di un’ingannevole e falsa semplicità. Sono felice che tu abbia citato Victor Jara. Il racconto che dà titolo alla raccolta che ho appena finito di scrivere, “L’altro da sé”, è proprio la storia degli ultimi giorni di vita di Victor Jara. Su questo “sentido y razón” della sua poesia, potrei citare un altro grande cileno, Pablo Neruda: “Dios me libre de inventar cosas cuando estoy cantando!”. La letteratura come sorgente della verità, di una verità così profonda che si nasconde tra le pieghe della realtà, che dev’essere cercata alla cieca, a mani nude, nell’ombra, nell’oscurità. I testi dei grandi scrittori e poeti sono le nostre antenne, di tutti noi. La loro chiaroveggenza, la loro incredibile intuizione, gli permette di far visita al futuro, guidati da una sorta di fiuto tra le tenebre di un tempo ancora non pervenuto, e di portare al presente, nei loro libri, le tendenze invisibili, i “fiumi profondi” di cui parlava Arguedas. Concentrano in poche, preziose parole, ciò che è disperso e frammentario nell’inconscio collettivo. La letteratura, quindi, non è in concorrenza con la scienza o con i discorsi teorici, perché il suo approccio all’esistenza è unico e insostituibile, la sua coscienza è di un’altra natura e quello che racconta nessun altro lo può raccontare. Solo la letteratura è in grado di capire per esempio la “passione del vuoto” che dilaga a macchia d’olio in Occidente. Solo la letteratura fa i conti con il tessuto logico della vita, l’intreccio di caso e di destino che ci avvolge tutti. Da questo la gratitudine irresistibile dei popoli per i loro scrittori, la consapevolezza profonda della grande fortuna che è averli, la coscienza di doverli fare emergere e amplificare la loro voce.

118libri. Secondo te perché in Italia la forma del racconto non attecchisce? Per mancanza di una tradizione italiana vera e propria o per ignoranza culturale? In fin dei conti anche in Italia i ritmi di vita delle persone sono sempre più frenetici, e racconti, nella loro forma breve, sarebbero perfetti per fornire spunti di riflessione sul tram o sulla metro o comunque nei pochi minuti che ci restano liberi in una giornata.
JMM. Penso come te, che il racconto breve è il genere per eccellenza della postmodernità, la narrativa del nostro tempo, e la sua immensa popolarità in Sudamerica e in tutti i paesi anglosassoni ne è una prova. Ma è pur vero che l’Italia è tradizionalmente refrattaria al racconto (sempre meno, però, e il successo di Sagarana lo dimostra). La ragione di fondo, secondo me, va oltre le questioni strettamente letterarie e risiede probabilmente in una inclinazione storica dell’Italia al conservatorismo culturale. Così come l’Italia non ha mai avuto una vera rivoluzione sociale e rimane velatamente elitaria e aristocratica, anche il genere romanzo, di stampo manzoniano, resiste nell’inconscio italiano come parametro letterario ideale, e il racconto secondo questa visione retrograda, sarebbe una sorta di “cugino povero” del romanzo, oppure una sua manifestazione sottosviluppata, o magari un “assaggio” in miniatura della forma romanzo, o un abbozzo, o un esercizio preparatorio. Al genere racconto non è concessa la dignità di grande arte che da molto tempo gli è riconosciuta altrove. Penso che c’è una resistenza all’apprezzamento del “piccolo” e del “breve” – anche se perfetto – allo stesso modo in cui c’è una resistenza a riconoscere la piena dignità e i diritti dell’uomo comune, del cittadino, bistrattato in passato quando è dovuto emigrare, bistrattato oggi quando ha deciso di immigrare in questo paese. C’è un collegamento tra questi due fatti apparentemente senza nesso, e questo è l’immobilità, la voglia di bloccare il cambiamento e l’inclusione in tutti i sensi, di illudersi con la possibilità di mantenere intatto un mondo in disfacimento, in vertiginosa trasformazione, di fermare venti, piogge e correnti, di imbalsamare per poi idolatrare la vecchia Italia dei privilegi familiari e del romanzo ottocentesco. C’è una guerra silenziosa – ma a volte anche rumorosa – tra il vecchio e il nuovo, e questa è la vera guerra civile italiana, una guerra polverizzata, sorda, onnipresente, che finirà con la vittoria del nuovo, come inevitabilmente accade sempre. Ma non prima di feroci battaglie, anche in campo artistico, senza risparmio di colpi.



118libri. Nei tuoi libri più recenti, come “madrelingua” o “L’amore scritto”, è chiaro il senso di straniamento , lo spaesamento che viene proprio dalla posizione di essere straniero e che conferisce ai tuoi testi quella atmosfera “noir”, un po’ bizzarra, sfuocata, a volte lugubre, che li caratterizzano. Puoi parlarci di questo spaesamento?

JMM. Lo sgua rdo dello straniero è uno strano sguardo, da un lato è vergine della nuova realtà e dall’altro è ancora impregnato, contaminato da una realtà in dissolvenza, sempre più lontana nel tempo e nello spazio, ormai irriconoscibile, distorta dalle pulsioni e dalle paure dell’inconscio, a volte mostruosa e a volte dolcissima, ma sempre in balia dell’azio ne del tempo che corrompe la memoria. Nel mio caso, questo si acutizza per il fatto che ogni notte il mio inconscio è torturato, esasperato dalle cose terribili che ho vi sto e vissuto, dalle morti spaventose che ho testimoniato senza mai girare lo sguardo dall’altra parte, tragedie e orrori che mi sono sempre sentito nell’obbligo di accompagnare ad ogni passo, fino in fondo, e che alla fine sono state una delle cause profonde della mia emigrazione. Ho vissuto la perdita definitiva di interi paesi, e ogni mia valigia nascondeva un terremoto. I miei libri oggi nascono con il DNA del dolore mischiato a quello della scoperta, imbastarditi da cromosomi sconnessi, generati nella fusione di universi incompatibili. Vedi, tutte le persone che oggi mi circondano, tutte le persone che amo, donna, amici, figli, le conosco da meno di 15 anni. Ma io non ho 15 anni, ne ho 55. E che ci faccio con gli altri quaranta? Come riempio quel silenzio che non smette di vibrare? Il passato ritorna, viene a galla in fondo alle crepe, agli abissi, e il lettore attento ritroverà questi “reperti archeologici” in ogni nuovo racconto o poesia nella lingua di adozione. Si nascondono le catacombe sotto il parco giochi del presente. Ma qui e lì si aprono fessure nel terreno e tra le ombre s’intravedono le ossa grigie e le pagine ingiallite, volti di ragazze, man i, melodie in lontananza, odori, spettri, voci sempre più stanche. Questa crepa si chiuderà per sempre con la mia morte, e avverrà allora la seconda e definitiva morte degli esseri che abitano quel sottofondo. Rimarranno nei miei libri ancora per un po’ di tempo, però. I libri, miracolosamente, li faranno rivivere e faranno rivivere anche me e voi, che ormai ne siete parte: siamo tutti insieme in queste pagine, dalla vecchia Niterói di mia nonna alla vostra Pisa di oggi, e anche l’Italia del futuro ci fa visita ogni tanto. I libri ospitano tutto e tutti, sono una casa generosa, smisurata, senza limiti né proscrizioni.

118libri. Dieci anni fa nacque SAGARANA, la rivista on-line di cui tu sei il direttore. Come mai allora sentisti l'urgenza di creare una rivista sul web e come è cambiata la rivista nel corso di questi anni?

JMM. Le riviste letterarie hanno un ruolo insostituibile nello sviluppo della letteratura in una società, nella diffusione e nell’affermazione di movimenti letterari, nel rinnovamento del pensiero, nello svelamento del nuovo ethos prevalente e delle forze che ad esso si oppongono, oltre a servire da vetrina ideale per i nuovi talenti, facendoli confrontare per la prima volta con il lettore anonimo, indistinto. La Sagarana è nata quando, arrivando in Italia nel 1995, ho notato che le poche riviste rimaste sfuggivano a queste responsabilità e pubblicavano solo gli autori a loro “consorziati”, in uno scambio di favori editoriali che risulta assolutamente sterile per la letteratura. In seguito, anche queste riviste sono a poco a poco scomparse, così come il modesto spazio che esisteva nelle librerie per ospitarle. La morte delle riviste cartacee tuttavia, che ha coinciso con la diffusione di Internet, ha aperto spazio alla nascita delle pubblicazioni on-line come Sagarana, Carmilla, E-Ghibli, Golem, Bollettino 900 e altre. La distribuzione mancante nelle librerie è stata superata da una super distribuzione informatica, immediata, democratica e globale. Sagarana, in questi suoi dieci anni di esistenza ininterrotta, credo abbia contribuito non poco all’aggiornamento della lettura e della scrittura in Italia, per esempio nella rivalorizzazione del genere racconto breve, nel dialogo tematico tra pensiero teorico e scrittura narrativa e poetica, e nel modello stesso di rivista culturale, che rispetta soltanto la qualità e il merito, e non considera il “prestigio acquisito” e le raccomandazioni, un modello adeguato per fare emergere i più bravi e per diffondere le idee necessarie.

118libri. Durante tutta la tua vita hai tenuto corsi di scrittura creativa, e tutt'ora gestisci un laboratorio di narrativa con la SAGARANA. Quanto può essere insegnato dell'arte dello scrivere?

JMM. Anche sul verbo “insegnare” bisogna fare una riflessione. Se per “insegnare” pensiamo a una trasmissione unilaterale di una data conoscenza, allora è ovvio che nell’ambito dell’arte e della creatività non è possibile “insegnare”. Se invece pensiamo a “insegnare” come a un’esperienza condivisa, in entrambe le direzioni, nella forma di un laboratorio, di uno spazio di creazione libera ma sempre più consapevole, dove vengono sperimentate nuove tecniche all’interno di una piccola comunità di artisti, è perfettamente possibile “insegnare” scrittura creativa, come facciamo nei laboratori della Scuola Sagarana, e come si fa anche nelle più importanti università del mondo (non in quelle italiane, però) dove i corsi di Creative Writing ospitano i più grandi scrittori come resident writers, e le opere letterarie più belle degli allievi possono essere presentate addirittura come tesi di dottorato.

118libri. Per terminare, potresti suggerirmi tre libri o tre autori da leggere assolutamente?

JMM. È molto difficile limitare a sole tre opere un universo quasi infinito come quello della letteratura moderna. Ma la domanda deve avere una risposta e i miei suggerimenti sono: Massa e potere, di Elias Canetti, Cent’anni di solitudine, di Garcia Márquez e Grande Sertão, di João Guimarães Rosa. Nella speranza che la lettura di questi tre libri stupefacenti acutizzi nei lettori la curiosità di conoscere centinaia di altri tesori di questa grande arte, e chissà lo spinga pure a dedicarsi alla scrittura!
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 Per sapere tutto di Julio, leggere qualche suo racconto o altro ancora andate sul sito della Sagarana

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