domenica 1 agosto 2010

Emanuele Trevi: Il destino dell'intellettuale

Emanuele Trevi-

30 luglio 2010


Il destino dell'intellettuale
 
Ma chi saranno, questi «intellettuali» alle cui miserie sono dedicati molti interventi nel primo numero della rinata «Alfabeta2»? Come vivono, in quello che Asor Rosa, in un recente libro-intervista, ha definito il grande silenzio? Come ingannano il tempo? Cosa sperano? E soprattutto: quanti di loro sono «intellettuali» senza saperlo, simili a quei personaggi dei cartoni animati che camminano nel vuoto, senza precipitare finché non se ne accorgono? Una sconcertante vaghezza semantica rischia di affogare il dibattito estivo nel tedio e in un senso di irrimediabile futilità. Del resto, non è mai stato così facile capire il concetto di «intellettuale». 


Anche a volerli sterminare tutti, servono dei criteri, empirici ma affidabili, per riconoscerli. Nel recente processo a Kaing Guek Eav, il famigerato «compagno Duch», uno dei più infami aguzzini di Pol Pot, è stato opportunamente ricordato che per i khmer rossi due erano i criteri fondamentali per stanare e mandare a morte questi spregevoli nemici del popolo: sapere un'altra lingua, e portare gli occhiali («gli occhiali sul naso e l'autunno nell'anima», diceva il grande Isaak Babel', qualche tempo prima di venire fucilato per ordine di Stalin.

Ma ai tempi di Harry Potter, nemmeno più la miopia resiste come appannaggio esclusivo dei topi di biblioteca). Bisogna insomma rassegnarsi al fatto che certe parole, e i concetti che dovrebbero veicolare, a un certo punto della loro storia smettono di funzionare: per l'eccessiva penuria o al contrario (come è il caso di cui parliamo) a causa di un'inflazione di accezioni che le svuota di senso e valore. Basta fare dei confronti con parole abbastanza affini da rientrare, grosso modo, nella stessa famiglia. Se dico filosofo, per esempio, o artista, o scrittore, o professore, mi riferisco a qualcosa di concreto, e non sento nessun bisogno di incorniciare di virgolette la parola.

Evocherò anche professioni che la maggior parte del mondo ignora o disprezza, ma godendo di una certa sicurezza di capire ciò di cui sto parlando - premessa indispensabile del fatto che anche altri mi capiscano. E infatti, vengono in mente subito degli esempi concreti. Giorgio Agamben è un filosofo, Anselm Kiefer è un artista, Cormac McCarthy è uno scrittore - indipendemente da ciò che ne penso, a da ciò che mi aspetto da loro. Quando invece si parla di «intellettuali», volente o nolente sto formulando un giudizio. L'oggetto si accompagna sempre all'ombra di chi lo enuncia, e alle sue intenzioni più o meno coscienti. Più che con un sostantivo, abbiamo a che fare con una specie aggettivo. Quel professore, quel giornalista, quel cantante diventa un «intellettuale» nel momento stesso in cui chi ne parla ritiene rilevante che sia tale. Ed anche coloro che parlano di se stessi come di «intellettuali» (non a caso è un fatto raro, gli individui essendo inclini a categorie più solide al momento di definirsi) lo fanno con orgoglio, o con imbarazzo, o con ironia, ma mai nel tono di una pacifica oggettività.

Non è un caso, allora, se ad impiegare con una certa residua utilità il termine «intellettuale» sono coloro per i quali si tratta, in pratica, di un sinonimo di «stronzo». In Europa come in America, e dovunque sparga i suoi veleni una destra populista, xenofoba, cultrice di immaginarie «tradizioni», quella dell'«intellettuale» è un potentissimo collante dell'immaginario, sempre alla ricerca di qualcosa da odiare per affermare meglio la propria identità.

So che per i lettori di questo giornale si tratta di un esercizio arduo, ai limiti del possibile, ma proviamo a fare uno sforzo di empatia, immaginando per un attimo cosa corrisponda alla parola «intellettuale» nella mente di un elettore della Lega veneto o lombardo, di estrazione piccolo-borghese, insediato in un contesto di provincia operosa e pragmatica. Per costui (o per costei) l'associazione spontanea sarà «Roma». Non tanto e non solo la capitale d'Italia, dotata di latitudine e longitudine precise, ma una «Roma» mobile e ubiqua, che si annida in «terrazze» e «salotti», e in ogni altro luogo in cui le chiacchiere tengano il luogo dei fatti, si pratichi una perniciosa tolleranza morale, si enuncino idee incomprensibili al di fuori di quell'ambiente, si mascheri con verbosa ipocrisia la differenza tra il dire e il fare. Più o meno rafforzata da variabili dosi di invidia e risentimento sociale, questa mitologia ha un carattere planetario, e una capacità di contagio che la rende di giorno in giorno più pervasiva e praticamente imbattibile. Ma non vale allora la pena di ritirarsi in altre zone del dizionario, invece di ostinarsi a strappare dalle fauci del nemico i brandelli di questo concetto di «intellettuale», così logoro da risultare inservibile ? In altre parole: a che serve ragionare su una parola che non serve più a nulla ? A che serve fomentare dibattiti e polemiche che non solo non cambiano di nulla il mondo, ma non producono la minima evoluzione di chi vi partecipa?

Ogni tanto, come se fossi magnetizzato da un influsso malefico, oscuro e doloroso, dò un'occhiata a certi blog in cui si susseguono centinaia e centinaia di interventi, un labirinto senza vie d'uscita di opinioni che si accavallano l'una con l'altra, senza scopo, senza direzione. Per giorni e giorni, in una tragica parodia della democrazia, si discute della responsabilità degli scrittori, del mercato editoriale, dell'ingiustizia del mondo - poco importa di cosa. La tacita regola di questa pratica collettiva è che l'oggetto della discussione venga progressivamente dimenticato. Ognuno continua a dire la sua, esprimendosi in una lingua sempre più pietosa, e mai nessuno cambia idea, perché la posta in gioco è solo dare ragione o torto, e continuare per la propria strada. Poi, per motivi che ancora non riesco a comprendere, gli interventi si fermano. Nessuno ci pensa più. Il gioco riprende su un altro sito, col pretesto di una nuova cazzata.

L'enorme serpentone di parole muore così, senza aver mai prodotto un grammo di conoscenza, un'illuminazione, un autentico giro di vite della coscienza. Mi fa sempre venire in mente, questo modo di discutere senza inizio e senza fine, privo di forma perché privo di sostanza, un terribile ammonimento che Flannery O'Connor rivolgeva, guarda caso, agli appassionati di dibattiti: si corre il rischio, diceva la grande scrittrice americana, «di vivere in un mondo che Dio non ha mai creato». Un mondo nel quale le parole, resecate da ogni reale sapienza, producono una cattiva infinità dove ci si può smarrire senza rimedio. Se questo è il destino dell'«intellettuale», vale davvero la pena di lasciar perdere, sia la parola che la cosa. Come diceva il saggio, ogni passo verso il meno è un passo verso il meglio.


Il manifesto 30 luglio 2010   - - - -
© JEmanuele Trevi

 

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