martedì 17 agosto 2010

Intervista con Derrick de Kerckhove di Raffaella Viglione

intervista con Derrick de Kerckhove di Raffaella Viglione

1999

Nel web l'individuo e la massa non si oppongono più, convivono

 Esiste una grande differenza tra connettività elettronica e la comunità tradizionale, sociale o politica. Questa si è sempre fondata sull'inclusione di alcuni e l'esclusione di altri. La connettività, invece, non allontana nessuno. In rete c'è tanta gente ma il singolo non viene fagocitato o respinto: partecipa della folla senza temere la forza del numero e la folla partecipa di lui senza soffocarlo.

Come tutti gli studiosi delle modificazioni antropologiche determinate dalle nuove tecnologie (e delle loro ricadute neurosociali) e come tutti i «coinvolti», per ragioni professionali o meno, nel terremoto ciberinformatico di questa fine secolo, anche i lettori di Telèma conoscono molto bene Derrick de Kerckhove, che ha già dato contributi importanti alla nostra rivista1. Per lungo tempo assistente del "profeta" Marshall McLuhan, di cui è considerato l'erede scientifico e morale, de Kerckhove insegna all'università di Toronto, Canada. Proseguendo il cammino iniziato dal maestro, da anni studia le interazioni tra la tecnologia, la mente e il corpo, con studi sperimentali sul rapporto tra il cervello umano e i nuovi media. Nessuno meglio di lui poteva fare un punto della situazione oggi che siamo a dieci anni dalla "offerta al pubblico" di Internet. Gli abbiamo posto alcune domande.


Lei è stato uno dei primi studiosi della comunicazione a interessarsi del fenomeno Internet cogliendone in anticipo sia le caratteristiche sia le potenzialità. Oggi potrebbe già essere in grado di fare un primo bilancio: che cosa è andato nella direzione che lei si aspettava e aveva previsto, e che cosa invece l'ha colta di sorpresa nel più recente sviluppo della rete?

Se mi aspettavo uno sviluppo tanto veloce, ad esempio? Sì, in realtà me l'aspettavo. La rete è connettiva per natura; vita ed espansione sono esattamente la stessa cosa per lei. Incrementando la connettività, aumenta in egual misura la comunità (attenzione a questi due termini; sulla rete sono dei sinonimi e vanno insieme molto meglio di quanto possano andar insieme comunità e collettività; e noi dobbiamo imparare a vedere la comunità come connettività). C'è una continuità misteriosa nel modo di collegarsi del pianeta, dalla scoperta e dalle prime applicazioni dell'elettricità. Il telegrafo, il telefono, Internet, il World wide web, si sono susseguiti gli uni agli altri, come se fossero stadi di un singolo sviluppo tecnologico. Internet sta facendo crescere esponenzialmente le connessioni come un cervello in stato di pieno apprendimento.


Qual è il segreto di questo straordinario successo?

Il segreto è che la rete riesce a far convivere sul piano psicologico due cose generalmente inconciliabili come l'individuo e la massa. Su Internet c'è tanta folla, eppure il singolo non si sente né fagocitato né respinto; partecipa della massa senza temere la forza del numero, e la massa partecipa di lui senza soffocarlo. Questo è appunto ciò che io chiamo connettività! E qui si capisce bene la differenza che passa tra connettività elettronica e collettività o comunità in senso sociale o politico. Queste si sono sempre basate sull'inclusione di alcuni e sull'esclusione di altri, mentre la connettività non respinge nessuno. Quando Romolo intimò a Remo di non oltrepassare quel solco, non determinò forse un'esclusione? Intendiamoci, non è che ogni comunità in senso sociale o politico si formi regolarmente contro qualcuno; però è normale pensare che chi non vi appartiene ne sia escluso. La comunità si definisce per l'esclusione. O almeno, non possiamo evitare l'esclusione.


Se non la velocità del suo sviluppo, che cos'altro di Internet le è apparso davvero sorprendente?

Mi sono sorpreso di due cose. La prima è la pazienza della gente mentre si visualizza la pagina (waiting to download, world wide wait). La seconda è la celerità con cui tale pazienza è ripagata. Aggiungo: sono state trovate delle soluzioni tecniche, per diminuire i tempi morti, molto più rapidamente di quanto non avessi potuto immaginare. E questa è stata un'altra sorpresa per me. Il merito va all'ingegno umano, ma anche agli sviluppi commerciali imposti dalla pressante domanda di connettività da parte del pubblico. Da una capacità di connessione di qualche megabit siamo arrivati al punto che si stanno progettando - e costeranno pochi dollari - modem e altre apparecchiature capaci di prestazioni fantastiche, dell'ordine dei gigabit; e si parla di una forma di calcolatore, il calcolatore quantico, che sarà "non lineare", cioè capace di elaborare in simultanea i dati provenienti da fonti eterogenee.


Quindi dobbiamo aspettarci una nuova evoluzione della tecnologia informatica. Che cosa comporterà il calcolatore quantico?

Il calcolatore quantico ci fornirà una forma di elaborazione vicina a quella di cui è capace il pensiero umano, perché il pensiero umano è, appunto, non lineare nella sua costruzione; è lineare solo nei risultati. Lo sviluppo tecnologico dei computer va in tale direzione, e le sue applicazioni potranno aiutare la gente a vivere meglio, ancor più di quanto già non facciano: si pensi agli ulteriori vantaggi che ne ricaveranno le amministrazioni pubbliche, ogni tipo di impresa, i servizi sanitari, la stessa ricerca scientifica. Si pensi alla meccanica dei fluidi, dove le simulazioni, in assenza di calcolatori più che veloci, non si possono fare. Un'altra possibilità è la ri-creazione della forma su modello iniziale povero quando occorre progettare con grande ricchezza di dettagli: ci vuole una capacità di calcolo enorme.

E poi, cos'altro potrà succedere? Quali nuovi prodigi?

Vogliamo spingerci più in là? La macchina del futuro potrebbe forse anche fare il calcolo delle contraddizioni insite nella natura umana... è lecito immaginarlo. Le nostre creazioni sul piano, diciamo così, artistico, precedono quelle sul piano tecnico, che hanno un corso più lento. McLuhan disse che nell'èra elettronica l'uomo avrebbe considerato il mondo intero come l'estensione della propria pelle: non fu l'intuizione di un vero grande poeta? Non bisogna aver paura di andare avanti con l'immaginazione, perché poi le nuove macchine non fanno altro che tradurre in pratica l'immaginario comune. Gli ingegneri realizzano le macchine, non le inventano; proprio perché sono ingegneri, non hanno immaginazione. Ora stanno per realizzare il calcolatore quantico, che già alcuni chiamano «Il Quantico dei quantici», ma non l'hanno mica inventato loro: è nato da un pensiero folgorante di McLuhan.


In che modo è possibile sfruttare le opportunità di connessione interattiva delle menti in rete, consentita dalle nuove tecnologie?

Al "McLuhan program" stiamo provando a poco a poco l'uso specifico di tecniche e macchine per la connettività. Una premessa: tutti gli studi che ho fatto sull'"intelligenza connettiva" sono stati principalmente un'occasione di incontro con la gente; è la cosa che in fondo mi interessa di più, poiché gli esseri umani sono di gran lunga più ricchi e dotati delle macchine... Anche se bisogna riconoscere che senza le macchine non sarebbe possibile valutare e archiviare a dovere i contenuti di un lavoro di ricerca; e mi piacerebbe, anzi, che si creassero programmi per facilitare scelte decisionali ed elaborare strategie. Ma per stare alla sua domanda, e a voler essere sincero, io non sono sicuro che la connessione interattiva delle menti in rete (ciò che chiamiamo intelligenza connettiva) sia qualcosa venuta alla luce adesso e solo perché, finalmente, esiste Internet. L'intelligenza connettiva, allo stato latente, esisteva probabilmente già prima. Mi viene il sospetto che fosse già qualcosa di connaturato all'essere umano; che la macchina abbia il solo merito di averla tradotta dallo stato potenziale a quello attuale; e che il problema sia ora quello di trovare la miglior forma di integrazione e di scambievole aiuto tra una macchina e, poniamo, una comunità di lavoro. In ogni caso, che l'intelligenza connettiva sia già una realtà lo vediamo ogni giorno nelle grandi come nelle piccole cose; anche nelle sciocchezze come il fatto, ad esempio, che posso collegarmi con tutte le grandi compagnie aeree per prenotare il mio biglietto alle condizioni per me più favorevoli; o che tutte le banche siano collegate, per il loro vantaggio ma anche per il mio, ad agenzie e uffici di tutto il mondo. E' già "intelligente" andare in Thailandia e poter usare non la solita costosa carta di credito, ma la "debit card" della mia piccola banca di Toronto. Ma, più in generale, ed è quello che mi preme dire, quando parliamo di "intelligenza" parliamo di una iniziale volontà umana tesa a creare una situazione o un evento, volontà che può essere oggi supportata dalla connessione elettronica in virtù di quel mezzo che si chiama Internet. L'intelligenza è insomma autonoma rispetto alle macchine. E io non credo affatto che le macchine cominceranno mai a prendere il controllo degli uomini, come nei film di science fiction. Non funzioneranno mai così bene!


Quali sono, secondo lei, le caratteristiche proprie di una comunità virtuale? Su quali temi, su quali argomenti, su quali problemi si stanno aggregando gruppi di persone sparsi su tutto il pianeta? E a che cosa può condurci tutto questo?

Cominciamo col dire che ci sono molte iniziative prese dai governi, in molti paesi. Ad esempio l'idea delle cosiddette "smart Communities", nata negli Stati Uniti, è stata ripresa anche in Canada, dove l'interesse a queste tematiche è addirittura maggiore. Il programma canadese per le "smart communities", molto bello, è suddiviso in attività che riguardano l'educazione civica, la salute, la conoscenza delle pubbliche amministrazioni e dei servizi che possono offrire, il turismo e via dicendo. Sono iniziative che consentono di sviluppare la connettività tra la popolazione. Dal momento che c'è un'iniziativa del governo si conferma che la comunità virtuale non è un gioco, come pensano ormai solo quelli che ne hanno ancora una immatura visione, ma anche un potente aiuto al vivere concreto. La virtualità aiuta la realtà. Come ha detto benissimo Fred Brooks, professore all'Università della North Carolina, il vero futuro della realtà virtuale è la "augmented reality", cioè una realtà arricchita e non sostituita dalla presenza della virtualità. Su questo percorso la città più avanti in Italia è Bologna, dove c'è un progetto pubblico per creare una virtualizzazione nell'anno 2000; nel resto d'Europa le cose più interessanti si stanno facendo a Helsinki e Praga, anche se a Berlino hanno creato una splendida simulazione storico-artistico-topografica della città, che consente una vera e propria immersione nel suo passato e nel suo presente: potete averla letteralmente tutta sul vostro apparecchio - strade, piazze, parchi, edifici, monumenti, teatri: anche la parte scomparsa durante la seconda guerra mondiale! - e vedere i suoi spettacoli, sentire le sue musiche, sapere persino che tempo fa in quel preciso momento. La simulazione è costata meno di 150 milioni per chilometro quadrato; un gruppo ha creato per così dire gli scenari, un'altra impresa ha fornito il contenuto digitale e la forma di navigazione. Noi, in Canada, abbiamo progettato "Digital Toronto", un cd-rom on line che dà la possibilità di navigare per la città e anche di andare ai grandi magazzini e scegliersi un vestito o farselo fare su misura: virtualità e realtà insieme. Le comunità più interessanti su Internet sono quelle che hanno la caratteristica della "pertinenza"; quelle, cioè, che sviluppano un interesse comune: politico, medico, di ricerca... Le configurazioni sono tanto diverse, che è difficile dire quale sia "migliore" rispetto a un'altra. Allora diciamo così: la comunità va sempre bene quando funziona; quando non funziona più, è finita.


Oltre la pertinenza, quali altri caratteri sono necessari affinché una comunità virtuale possa funzionare?

Altra caratteristica di tutte la comunità che funzionano dev'essere il just in time; per esempio in questo momento Raffaella sta intervistando de Kerckhove: ecco una comunità just in time, puntuale, che ha una ragion d'essere precisa. Dal momento che l'intervista è finita Raffaella va in un altro posto e anche de Kerckhove va in un altro posto. Tornando alla "pertinenza", questa consiste nel fatto che intorno all'argomento che lega e interessa la comunità si crea una domanda, cui corrisponde un'offerta. Si pensi a una comunità di malati d'una stessa malattia o di persone che hanno avuto un grave incidente di macchina: si scambiano informazioni ed esperienze. Ma persino le poco nobili comunità di pornofili sono pertinenti, in quanto consentono la soddisfazione di un certo desiderio lì e adesso. Il valore da attribuire a una comunità dipende da vari fattori: la sua base numerica, la sua configurazione, il tipo di rapporto che lega quelli che ne fanno parte, la frequenza con cui si incontrano. Ci sono comunità user friendly, da cui si entra e si esce con disinvoltura, e comunità caratterizzate da durevolezza di rapporti umani, perché sottendono la condivisione di uno o più interessi profondi. Ci sono comunità un po' meno just in time e tuttavia sotto vari aspetti interessantissime, penso a quelle formate da artisti: le comunità di artisti sono ancora poche ma in grande crescita, l'ho notato facendo parte della giuria di "Art on the web", il premio assegnato nell'ambito dell'Ars electronica Festival. Alcune sono localizzate in un posto preciso, come quella francese di Pierre Bongiovanni situata nel castello di Mont Beliard, dove vive e lavora un gruppo di videoartisti, e quella olandese di Society for old e new media ad Amsterdam. Penso inoltre alle comunità di hackers; alle comunità che nascono con un programma specifico, come quella del Linux, composta da ricercatori e creatori sul web; alle comunità di tipo linguistico, come quella francofona promossa dai francesi, che è nel medesimo tempo nazionale e mondiale. Ci sono le comunità politiche: mi viene in mente quella zapatista del Chiapas; lì il sub-comandante Marcos ha creato un mito web per resistere al governo messicano. Si tratta di una resistenza militare e anche informatica. La più originale e intrigante fra tutte le comunità? Forse quella dell'"Albero iperbolico" di Inxight, che abbiamo utilizzato per il sito Connected Intelligence. Sviluppa l'idea che l'interconnessione delle parole e delle persone potrebbe avere una forma, un ritmo, una configurazione propria, che si vede.


Si può parlare di una cultura del ciberspazio? In che termini?

Certo che se ne può parlare. Si veda l'analisi che ne fa Lévy nel suo recente libro sull'argomento. Quanto a me, ho scoperto la cibercultura nel 1994, proprio all'inizio della diffusione di Internet. Mi trovavo al simposio internazionale di Helsinki sull'arte elettronica. C'erano quattrocento persone, fisicamente presenti ma collegate in rete e come unite da un sottile fil rouge. Terminato e sciolto il convegno, quel filo non si spezzò; tutte quelle menti rimasero in connessione tra loro e probabilmente lo sono ancora. Ecco, lì io ebbi la sensazione che fosse nata una dimensione nuova per la cultura. Per il momento riguardava soltanto quel gruppo, ma presto avrebbe raggiunto e coinvolto persone d'ogni parte del mondo.


Se questa nuova cultura, come sembra nella sua stessa natura, diventa planetaria, non si corrono dei rischi di omologazione? Non vede profilarsi all'orizzonte un mondo più uniforme, nel quale vada perduta ogni specificità locale, ogni tradizione, anche secolare?

Capisco questo timore. Esso deriva dall'esperienza, che tutti abbiamo fatto, dell'imperialismo della tv americana, un dominio che fa paura a tutti in quanto veicola e impone i prodotti delle grandi corporazioni industriali. Questo è però un male che non si può esportare su Internet. L'imperialismo televisivo era - ed è ancora - imperniato sul modello del broadcast: uno trasmette, pubblica in esclusiva, e tutti gli altri possono solo ricevere, star a sentire, senza opportunità di replica o difesa. Invece quando si parla di rete non si parla di broadcast. La differenza fondamentale è che sulla rete non si pubblica in esclusiva ma semplicemente si affiggono manifesti in uno spazio che è anche di chiunque altro: per accedervi, infatti, e appendervi il proprio manifesto, basta la connessione. Questa differenza fondamentale non è stata ancora ben capita dall'editoria, dalla tv e forse nemmeno da tutti gli utenti della rete. Solo le persone davvero intelligenti hanno afferrato che l'assenza del broadcast dà la possibilità a una cultura anche locale di diventare planetaria. Arrivo a dirla grossa: persino l'idea del villaggio globale enunciata da McLuhan era un'idea di broadcast, un'idea da tv imperialista. La percezione giusta infatti non è che il mondo diventa un solo villaggio globale, ma quella che tutti i villaggi del mondo diventano globali. Intendiamoci: ai suoi tempi McLuhan aveva ragione, c'era solo la tv e non esisteva Internet. Oggi possiamo tranquillamente cambiare idea e vivere Internet senza paura.


La rete secondo lei può sostituire i centri di aggregazione di tipo tradizionale (ufficio, circolo, bar, piazza, parrocchia, associazioni, partiti) che sembrano essere sempre più in crisi e pare vadano ormai scomparendo? Può Internet essere un luogo nuovo della socialità del prossimo millennio?

Tutte le cose che accadono nella rete sono collegate con la realtà, con la materialità del mondo. Sotto un certo aspetto la rete ci libera dalle briglie dello spazio e del tempo. Però da un altro punto di vista registriamo qualcosa di simile all'effetto della riproduzione meccanica dell'opera d'arte, di cui parlò Walter Benjamin. La riproduzione è virtualità rispetto alla materialità dell'originale; ma più le cose sono virtuali, più che mai il desiderio della materialità aumenta. Altro esempio: usiamo le banconote o la carta di credito, che sono la virtualità dell'oro conservato nei forzieri delle banche; non arriveremo mai a toccare con le dita quell'oro in parte anche nostro, ma sappiamo bene che, se non ci fosse, il danaro e la carta di credito sarebbero nulla. E quantunque non vi sia nel mondo oro abbastanza per supportare la valuta di tutte le transazioni, il potere simbolico di quel metallo continua; come continua il potere simbolico dell'opera d'arte originale, conservata al museo, sulla sua riproduzione, analogica o digitale che sia. Lo stesso avviene per il sentimento della vita. Penso che possiamo simulare quello che vogliamo delle nostre esperienze, ma poi abbiamo voglia di tornare alla realtà e materialità di esse.


Lei ha teorizzato qualcosa che potrebbe richiamare l'idea di una personalizzazione della rete, quasi il suo possedere una mente autonoma, un'anima. La sua tesi della "mente connettiva" sembra avanzare l'ipotesi di una vita autonoma della rete... è così?

Non possiamo già dire con sicurezza che c'è una forma indipendente di pensiero sulla rete. Forse un giorno potremo. Quando? Forse quando saremo tutti collegati alla rete per mezzo di nostri agenti elettronici capaci di selezionare e filtrare l'informazione a noi pertinente, cioè quella che ci interessa. Ci sono esperimenti in corso, ma francamente non ho ancora visto niente al riguardo. D'altra parte io preferisco di gran lunga le situazioni in cui macchina e uomo operano insieme. Però è vero che riguardo all'interattività c'è una direzione di lavoro che è chiamata "autonomazione", che vuol dire autonomia del prodotto digitale e, insieme, automatizzazione della funzione di quel prodotto (più è automatizzato, più è capace di funzionare in modo intelligente, di creare un effetto reale). E' una forma emergente di intelligenza propria della macchina. Possiamo dunque dire che questa emergenza si profila. Ma non è matura. E' ancora allo stadio di ipotesi.


La rete rimarrà sostanzialmente un anarchico e incontrollato luogo di scambio di idee e informazioni, o alla lunga prevarrà una visione basata sugli interessi economici, che la trasformerà soltanto in un nuovo immenso mercato?

E' vero che l'interesse economico è quello che dà la motivazione più continua, però ci sono ancora molte persone che fanno le cose gratuitamente. Prendiamo Linus Torvalds, il creatore di Linux. Quest'anno gli abbiamo assegnato il primo premio di "Arts on the web" a Linz; glielo abbiamo assegnato, anche se non è un artista, perché è uno di quelli che hanno dato molto all'umanità senza mai chiedere nulla in cambio. E', per intenderci, uno alla Tim Berners Lee, l'uomo che ha inventò il web: magnifici esempi di disinteresse, molto importanti nel mondo d'oggi. Premiando Torvalds abbiamo voluto mandare un segnale a tante persone: non aspettino ogni volta la volontà di Bill Gates per darsi da fare, perché le cose possono essere realizzate anche indipendentemente da lui e dalla Microsoft. E senza pensare unicamente ai soldi. Il centro di gravità del web, ammesso che ve ne sia uno, si trova a Silicon Valley, e Silicon Valley funziona con l'investimento, con il venture capital, e in sostanza con idee e particolari energie che traggono sviluppo solo dalla motivazione economica: tutto vero! Ma è un guaio se continuiamo a vedere la rete e il web solo attraverso il filtro di Silicon Valley. Ricordiamoci che i più grandi creatori del web non sono nemmeno americani: Tim Berners Lee è inglese, Linus Torvalds finlandese. Questo per dire che il lavoro di Silicon Valley è certo importante per tutti, però si possono fare molte cose, nel mondo dell'open architecture, anche senza finanziamento a priori. Possono bastare l'idea e il puro interesse scientifico. Tanto, poi, quando un lavoro sulla rete è ben fatto, l'autore ci guadagna comunque, se non altro in termini di prestigio personale e di potere, un potere non richiesto forse, ma in ogni caso sempre ben trovato, cioè utile e gradito.


Sarà possibile attraverso la rete un controllo di tipo politico della popolazione? Dobbiamo temere un altro Grande Fratello?

Non credo. E' difficile da realizzare. In teoria, invocando la ragion di Stato o il segreto militare, sarebbero possibili varie forme di interferenza o di proibizione sulla rete o attraverso la rete. Ma vanno tutte a urtare contro principi costituzionali o diritti di libertà universalmente riconosciuti e sanciti. Ci ha provato la Francia a porre dei limiti severi, ci hanno provato gli Stati Uniti a fare delle schedature, tutto è rientrato in gran fretta. Allo stato delle cose nessuno può assumere il controllo della rete. Semmai possiamo aspettarci che qualcuno tenti di sabotarla, cioè di controllarla al negativo. E a questo proposito il pericolo principale è rappresentato dai virus. Sì, i virus sono l'unica cosa che potrebbe far finire in anticipo la storia del libero web. Un controllo politico in positivo sarebbe possibile solo se la gente l'accettasse, e la sola ragione per cui la gente potrebbe accettarlo sarebbe, penso, quella di poter in tal modo evitare i virus. Abbiamo l'esempio della Cina, che nel 1996 aveva provato a chiudersi in una grande muraglia elettronica. Utilizzando, infatti, la tecnica del firewall le autorità di Pechino potevano controllare l'accesso a Internet dei cittadini cinesi e l'accesso degli osservatori esterni alla intranet cinese. Ma la immediata notorietà degli episodi di Piazza Tienammen ci dimostrò che un controllo assoluto della rete è impossibile, perché comporterebbe la pura e semplice soppressione di strumenti diffusissimi quali il telefono e il fax. Quindi, fino a che punto è controllabile Internet? Il solo tipo di controllo che riesco a intravedere è insito nel passaggio a una Internet Due, in cui il potere politico dovrebbe negoziare le sue pretese con la gente. La rete sarà nel frattempo diventata così grossa, che la capacità economica e produttiva di intere nazioni dipenderà in buona parte dal suo grado di libertà e dalla sua efficienza.


Non pensa comunque che siano proprio gli interessi economici che Internet muove a provocare il sempre maggiore sviluppo della rete?

Sì e no. Vediamo come sono andate le cose. Internet è iniziata come strumento di difesa delle Forze armate americane. Erano i tempi della paura della guerra nucleare. C'era un gruppo di militari del Pentagono aiutato da un gruppo di accademici, punto e basta. Dal momento che il giovane Andreessen elaborò Mosaic da modelli già creati da Berners Lee, venne fuori un browser che funzionava abbastanza bene. E quello fu l'inizio della rivoluzione di Internet. Ma anche in quel momento nessuno nel commercio e nelle grandi corporazioni afferrò l'importanza della cosa. Prime a capire e a chiedere l'accesso furono persone comuni con possibilità di comprarsi il pc e il modem. Dietro vennero le piccole e medie imprese; i colossi dell'economia sono arrivati buoni ultimi. E ora siamo nella fase dell'espansione generale. Questo significa che nel nostro caso le motivazioni economiche sono arrivate molto tardi; quando poi sono arrivate, si è speso molto denaro per un'accelerazione tecnologica; e questa ha certamente servito per primo il grande business con le varie Intranet ed Extranet, ma non è affatto detto che si sia prodotta nell'interesse esclusivo del grande business; tant'è che la rete, per la sua estrema libertà di espressione e le sue spinte anarcoidi, è stata duramente criticata in certi ambienti. Alla fine però l'idea che sta prevalendo è quella di allargare al massimo l'accesso a Internet. Si cerca di portar dentro anche le popolazioni più povere. E il mondo della produzione non può opporsi: ogni nuovo connesso a Internet sarà domani un altro potenziale consumatore di beni prodotti. Per concludere, sono contento che finalmente le grandi corporazioni abbiano capito che è nell'interesse generale sviluppare la flessibilità tecnica di Internet; ma, come vede, alla domanda se questo sviluppo sia dovuto principalmente a loro, potevo solo rispondere «sì e no».


Nota
1 Questi gli interventi che de Kerckhove ha già pubblicato sulla nostra rivista: Ve lo posso garantire io, in Internet non ci si perde, intervista di Andrea Scazzola, Telèma 4, primavera 1996; Il virtuale ha un'estetica che lo rende anche più umano, intervista di Chiara Sottocorona, Telèma 6, autunno 1996; A chi ha paura rispondo: è un'occasione, fantastica, intervista di Pietro Zullino, Telèma 8, primavera 1997; Rischi pochi, vantaggi tanti, oggi è meglio studiare on line, intervista di Francesca Leoni, Telèma 12, primavera 1998.

Telema 1999
© telema

materiale video di Derrick de Kerckhove su   Meet the media Guru

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