mercoledì 4 agosto 2010

Julia Kristeva: Toccata e fuga per lo straniero

  Julia Kristeva - 17 luglio 2010  

Sagarana   - - - -

Toccata e fuga per lo straniero






Straniero: rabbia strozzata in fondo alla gola, angelo nero che turba la trasparenza, traccia opaca, insondabile. Figura dell'odio e dell'altro, lo straniero non è né la vittima romantica della nostra pigrizia familiare né l'intruso responsabile di tutti i mali della città. Né la rivelazione attesa né l'avversario immediato da eliminare per pacificare il gruppo. Stranamente, lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità, lo spazio che rovina la nostra dimora, il tempo in cui sprofondano l'intesa e la simpatia. Riconoscendolo in noi ci risparmiamo di detestarlo in lui. Sintomo che rende appunto il "noi" problematico, forse impossibile, lo straniero comincia quando sorge la coscienza della mia differenza e finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri, ribelli ai legami e alle comunità.


Lo "straniero", che fu il "nemico" nelle società primitive, può scomparire nelle società moderne? Passeremo in rassegna alcuni momenti della storia occidentale in cui lo straniero è stato pensato, accolto o respinto, ma in cui, all'orizzonte di una religione o di una morale, si è anche concepito come possibile il sogno di una società senza stranieri. Il problema, ancora e sempre utopico, si pone di nuovo oggi, di fronte a un'integrazione economica e politica su scala planetaria: riusciremo intimamente, soggettivamente, a vivere con gli altri, a vivere da altri, senza ostracismi ma anche senza integrazioni livellanti? Il modificarsi della condizione degli stranieri che va imponendosi ai giorni nostri invita a riflettere sulle nostre capacità di accettare nuovi modi di alterità. Nessun "Codice di nazionalità" risulterà praticabile senza la lenta maturazione di questo problema in ciascuno, per ciascuno.

Nemico da abbattere nei gruppi umani più selvaggi, lo straniero diviene, nella sfera delle costruzioni religiose e morali, un uomo diverso che, purché dia la sua adesione, può essere assimilato all'alleanza dei "saggi", dei "giusti" o degli "indigeni". Nello stoicismo, nel giudaismo, nel cristianesimo e fino all'era dei Lumi, questa accettazione vede variare le sue figure ma, con tutti i suoi limiti e difetti, rimane un importante baluardo contro la xenofobia. La violenza del problema che lo straniero oggi pone è probabilmente legata alle crisi delle costruzioni religiose e morali; essa è dovuta soprattutto al fatto che l'assorbimento dell'estraneità proposta dalle nostre società si rivela inaccettabile per l'individuo moderno, geloso della sua differenza non soltanto nazionale ed etica ma anche essenzialmente soggettiva, irriducibile. Prodotto della rivoluzione borghese, il nazionalismo è divenuto il sintomo, prima romantico poi totalitario, dei secoli XIX e XX. Ora, pur opponendosi alle tendenze universalistiche (religiose o razionalistiche che siano) e pur tendendo a isolare o addirittura a cacciare lo straniero, il nazionalismo finisce comunque per sfociare nell'individualismo particolaristico e intransigente dell'uomo moderno. Ma è forse a partire dalla sovversione di questo individualismo moderno, dal momento in cui il cittadino-individuo cessa di considerarsi unito e glorioso, per scoprire le sue incoerenze e i suoi abissi, le sue "estraneità" insomma, è da questo momento, dicevo, che il problema si pone di nuovo, anche se riguarda non più la possibilità di accogliere lo straniero all'interno di un sistema che lo annulla bensì la coabitazione di quegli stranieri che tutti noi riconosciamo di essere.
Non cercare di fissare, di cosificare l'estraneità dello straniero. Toccarla soltanto, sfiorarla, senza conferirle una struttura definitiva. Semplicemente delinearne il movimento perpetuo attraverso alcuni dei volti disparati che essa ci mostra oggi, attraverso alcune delle sue figure antiche e cangianti disperse nella storia. Ma anche alleviarla, questa estraneità, ritornando continuamente su di essa – sempre più rapidamente, però. Sottrarsi al suo odio e al suo peso, fuggirli non attraverso il livellamento e l'oblio ma con la ripresa armoniosa delle differenze che essa presuppone e propaga. Toccate e Fughe: ipezzi di Bach fanno risuonare alle mie orecchie quello che vorrei fosse il senso moderno dell'estraneità riconosciuta e lancinante, perché sollevata, alleviata, disseminata, inscritta in un gioco nuovo in via di formazione, senza meta, senza limiti, senza fine. Un'estraneità che, appena sfiorata, già s'allontana.

[…]

II silenzio dei poliglotti

Non parlare la propria lingua materna. Abitare sonorità, logiche separate dallamemoria notturna del corpo, dal sonno agrodolce dell'infanzia. Portare dentro di sé come una cripta segreta, o come un bambino handicappato – amato e inutile – quel linguaggio di un tempo che sbiadisce e non si decide a lasciarvi mai. Vi perfezionate in un altro strumento, come ci si esprime con l'algebra o il violino. Potete divenire virtuosi in quel nuovo artificio che vi procura del resto un nuovo corpo, altrettanto artificiale, sublimato – alcuni dicono sublime. Avete l'impressione che la nuova lingua sia la vostra resurrezione: nuova pelle, nuovo sesso. Ma l'illusione si squarcia quando vi riascoltate, su un nastro registrato per esempio, e la melodia della vostra voce vi ritorna bizzarra, da nessuna parte, più vicina al borbottio di un tempo che al codice di oggi. Le vostre goffaggini hanno un certo fascino, vi dicono, sono persino erotiche, rincarano i seduttori. Nessuno vi fa notare i vostri errori, per non ferirvi, e poi non sarebbe mai finita, e poi alla fin fine chi se ne frega. Però vi fanno comunque capire che è seccante: a volte, l'alzarsi di un sopracciglio o un "Prego?" elegante vi fanno capire che "non sarete mai dei loro", che "non ne vale la pena", che "su quel punto almeno non ci cascano". Quanto a cascarci, neppure voi lo fate. Tuttalpiù siete credenti, pronti ad apprendere tutto, a tutte le età, per raggiungere – in quella parola degli altri che immaginate di poter perfettamente assimilare un giorno – Dio sa quale ideale, al di là della confessione implicita di una delusione dovuta aquell'origine che non ha mantenuto la sua promessa.

Così, fra due lingue, il vostro elemento è il silenzio. A forza di dirsi in diversi modi, tutti altrettanto approssimativi, altrettanto banali, la cosa non si dice più. Uno scienziato di fama internazionale era solito ironizzare sul suo famoso poliglottismo dicendo che parlava il russo in quindici lingue. Io, per parte mia, avevo l'impressione che fosse mutacico e che il suo silenzio stanco e immobile lo spingesse, talvolta, a cantare o a salmodiare poesie per dire finalmente qualcosa.

Quando Hölderlin si iniziava al greco (prima di tornare alle fonti del tedesco), esprimeva drammaticamente quell'anestesia della persona ghermita da una lingua straniera: "Un segno, tali noi siamo, e di significato nullo / Morti ad ogni sofferenza, e quasi abbiamo perso / La nostra lingua in terra straniera" (Mnemosine).
Inchiodato, a questo mutismo poliforme, lo straniero può tentare non di dire ma so, le faccende di casa, vela, tennis, calcio, cucito, equitazione, jogging, dei figli... È sempre una spesa, è un consumare, e propaga ancor di più il silenzio. Chi vi ascolta? Tuttalpiù vi sopportano. Del resto, volete realmente parlare?

Perché allora essersi tagliati fuori dalla fonte materna delle parole? Cosa vi aspettavate da questi nuovi interlocutori cui vi rivolgete con una lingua artificiale, una protesi? Erano per voi idealizzati o disprezzati? Ma via! Ilsilenzionon vi è soltanto imposto, è in voi: rifiuto di dire, sonno striato attaccato a un'angoscia che vuole restare muta, proprietà privata della vostra discrezione orgogliosa e mortificata, luce tagliente, ecco cos'è il vostro silenzio. Nulla da dire, niente, nessuno all'orizzonte. E una completezza impenetrabile: diamante freddo, tesoro segreto, accuratamente protetto, inafferrabile. Non dire niente, niente da dire, niente è dicibile. All'inizio, fu una guerra fredda con quelli del nuovo idioma, desiderato e respingente; poi la nuova lingua vi ha ricoperto come una marea lenta, di acque morte. Silenzio non della collera che scaraventa le parole ai bordi dell'idea e della bocca ma silenzio che svuota la mente e colma il cervello di prostrazione, simile allo sguardo di donne tristi acciambellato in qualche inesistente eternità.

[…]

Lo strano dentro di noi

L'inquietante estraneità sarebbe così la via regia (ma nel senso della corte, non del re) attraverso la quale Freud introduce il rifiuto affascinato dell'altro nel cuore di quel "noi stessi" sicuro di sé e opaco che appunto non esiste più dopo Freud e che si rivela essere uno strano paese di frontiere e di alterità incessantemente costruite e decostruite. Cosa strana, non si parla affatto di stranieri in Das Unheimliche.
In verità, è raro che uno straniero provochi l'angoscia terrificante che suscitano la morte, il sesso femminile o lo scatenarsi della pulsione “malefica”. Ma siamo veramente sicuri che i sentimenti politici di xenofobia non comportino, spesso inconsciamente, quella transe di giubilazione spaventata che i tedeschi dicono unheimlich, gli Inglesi uncanny e i Greci molto semplicemente... xenos, "straniero"? Nel rifiuto affascinato che suscita in noi lo straniero, c'è una parte di inquietante estraneità nel senso della depersonalizzazione che Freud ha scoperto e che si ricollega ai nostri desideri e alle nostre paure infantili dell'altro – l'altro della morte, l'altro della donna, l'altro della pulsione incontrollabile. Lo straniero è dentro di noi. E quando fuggiamo o combattiamo lo straniero, lottiamo contro il nostro inconscio – questo "improprio" del nostro impossibile "proprio". Delicatamente, analiticamente, Freudnon parla degli stranieri: egli ci insegna a scoprire l'estraneità dentro di noi. E questo è forse il solo modo di non perseguitarla fuori. Al cosmopolitismo stoico, all'integrazione universalista religiosa, succede in Freud il coraggio di dirci disintegrati, non per integrare gli stranieri e ancor meno per perseguitarli, bensì per accoglierli in quella inquietante estraneità che è loro come nostra.
In effetti, questa distrazione o questa discrezione freudiana nei confronti del "problema degli stranieri" – che appare solo ad eclissi o, se si preferisce, come sintomo, attraverso il riferimento al termine greco xenos[1] – potrebbe essere interpretata come un invito (utopico o modernissimo?) a non reificare lo straniero, a non fissarlo come tale, a non fissar noi stessi come tali. Ma ad analizzarlo analizzandoci. A scoprire la nostra perturbante alterità, giacché è proprio essa a fare irruzione di fronte a questo "demone", a questa minaccia, a questa inquietudine che viene generata dall'apparizione proiettiva dell'altro in seno a ciò che noi persistiamo a mantenere come un "noi" proprio e solido. Riconoscendo la nostra inquietante estraneità noi non ne soffriremo e non godremo di un'altra esterna a noi. Lo strano è dentro di me, quindi siamo tutti degli stranieri. Se io sono straniero, non ci sono stranieri. Perciò Freud non ne parla neppure. L'etica della psicoanalisi implica una politica: essa approderebbe a un cosmopolitismo di tipo nuovo che, trasversale ai governi, alle economie e ai mercati, opererebbe per una umanità la cui solidarietà sarebbe fondata sulla coscienza del suo inconscio – desiderante, distruttore, pauroso, vuoto, impossibile. Siamo lontani con ciò da un appello alla fraternità di cui è già stato detto quanto sia debitrice all'autorità paterna e divina – "Perché ci siano dei fratelli, ci vuole un padre" – non mancò di dire Veuillot apostrofando gli umanisti. Dall'inconscio erotico e mortifero, l'inquietante estraneità – proiezione e insieme elaborazione primaria della pulsione di morte – che annuncia i lavori del "secondo" Freud, quello di Al di là del principio di piacere, situa dentro di noi la differenza nella sua forma più distruttiva e la dà come condizione ultima del nostro essere con glialtri.

Praticamente...

La nazionalità deve acquisirsi automaticamente oppure la si deve scegliere con un atto responsabile e deliberato? Lo ius soli basta a cancellare lo ius sanguinis (quando si tratta di figli di immigrati nati sul suolo francese) oppure occorre in più una manifestazione di desiderio da parte degli interessati? Gli stranieri possono ottenere i diritti politici? Dopo il diritto di aderire alle organizzazioni sindacali e professionali, deve spettare loro anche lo stesso diritto di voto in seno alle collettività locali e, infine, sul piano nazionale?

I problemi si accumulano; e la Commissione dei saggi che in Francia ha esaminato il "Codice della nazionalità" ha formulato proposte ragionevoli. Avendo constatato che "la Francia conta, in termini relativi e assoluti, la popolazione straniera più numerosa della sua storia moderna" e che "nessun paese ha interesse a lasciare che si sviluppino sul suo territorio minoranze straniere troppo forti che verrebbero singolarizzate dalla rivendicazione della loro differenza o stigmatizzate dalla loro esclusione dalla vita sociale e nazionale", la Commissione della nazionalità, presieduta da Marceau Long, raccomanda "l'acquisizione della nazionalità francese per gli stranieri stabilitisi durevolmente in Francia" e il perfezionamento delle "modalità di acquisizione, che implica una scelta cosciente, favorevole all'integrazione dell'individuo". La Commissione presenta poi "l'integrazione come una necessità".[2] Queste proposte verranno con ogni evidenza discusse, contestate, adottate almeno in parte e avranno una loro evoluzione.

Nel caleidoscopio che la Francia sta divenendo – un caleidoscopio innanzitutto del Mediterraneo, e progressivamente del Terzo mondo – le differenze fra autoctoni e immigrati non saranno più così nette come un tempo. Il potere di omogeneizzazione della civiltà francese, che ha saputo ricevere e unificare per secoli influenze e etnie diverse, ha già fatto le sue prove classiche. Ora, la Francia sta oggi accogliendo dei nuovi venuti che non intendono rinunciare alle loro particolarità. La situazione è completamente diversa da quella che diede origine agli Stati Uniti d’America, i quali proponevano una nuova fede religiosa ed economica a sradicati messi sullo stesso piano. In Francia, in questa fine del XX secolo, ognuno è destinato a restare il medesimo e l'altro: senza dimenticare la proprio cultura d'origine, ma relativizzandola al punto di farla non soltanto coesistere ma anche alternare con quella degli altri. Una nuova omogeneità è poco probabile, e forse poco auspicabile. Siamo invitati, dalla forza dell'economia, dei media, della storia, a coabitare in un solo paese, la Francia, anch'essa in via di integrazione nell'Europa. È già così difficile – ma anche vantaggioso – coesistere in quel nuovo paese multinazionale (e non sovra-nazionale) che è l'Europa, un paese che pure si compone di nazioni dalle culture affini, dalle religioni simili, dalle economie interdipendenti da secoli! Possiamo quindi misurare quali problemi ponga, in seno a un medesimo insieme politico (a sua volta già in via di integrazione in altri insiemi), la coabitazione di popolazioni le cui considerevoli differenze, etniche, religiose, economiche, si scontrano con la tradizione e le mentalità in vigore tra coloro che li accolgono. Ci stiamo avviando verso una nazione-puzzle fatta di diverse particolarità, la cui dominante numerica rimane per il momento francese – ma sino a quando?

Per favorire la migliore armonia di una simile polivalenza si impone un'evoluzione delle mentalità. Forse si tratta in definitiva di estendere alla nozione di straniero il diritto al rispetto della nostra stessa estraneità e, insomma, del "privato", che garantisce la libertà delle democrazie? L'accesso degli stranieri al diritto politico si farà sull'onda di questa evoluzione e, necessariamente, con garanzie giuridiche adeguate: si può pensare, ad esempio, a uno statuto di "doppia nazionalità" che darebbe agli "stranieri" che la desiderano certi diritti, ma anche i doveri politici propri degli autoctoni, con una clausola di reciprocità che dia a questi stessi autoctoni pari diritti e doveri nei paesi d'origine degli stranieri in questione. Questa regola, di facile applicazione per la CEE, potrebbe essere modulata e adattata ad altri paesi.

Tuttavia, il problema fondamentale che frena questi accomodamenti che giuristi e politici si accingono a predisporre sotto la spinta variabile dei bisogni economici nazionali, è di un ordine più psicologico, anzi metafisico. In assenza di un nuovo legame comunitario – religione salvatrice che integrerebbe la massa degli erranti e dei diversi in un nuovo consenso, diverso da quello del "più danaro e beni per tutti" – siamo condotti, per la prima volta nella storia, a vivere con i diversi scommettendo sui nostri codici morali personali, senza che alcun insieme capace di inglobare le nostre particolarità possa trascenderle. È sul punto di sorgere una comunità paradossale, fatta di stranieri che si accettano nella misura in cui si riconoscono stranieri essi stessi. La società multinazionale sarebbe così il risultato di un individualismo estremo ma consapevole dei suoi disagi e dei suoi limiti, un individualismo che conosce soltanto irriducibili pronti ad aiutarsi nella loro debolezza, quella debolezza che ha come altro nome la nostra estraneità radicale



[1] Il perturbante, in Opere 1917-1923, Boringhieri, Torino 1986, p.83.
[2] Cfr. Être français aujourd’hui et demain , t.II, 10/18, Paris 1988, pp.235-6.



(I brani precedenti sono tratti da: Julia Kristeva, Stranieri a se stessi, traduzione dal francese di Alessandro Serra, Milano, Feltrinelli, 1990, pp. 9-10, 20-21, 174-178).


Julia Kristeva


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