lunedì 23 agosto 2010

L’ironia cosmica di Calvino e il riso romanzesco di Kundera - pag 1

  Massimo Rizzante

2002

 L’ironia cosmica di Calvino e il riso romanzesco di Kundera
storia di un duplice apprendistato 
( i / ii)


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Un ricordo musicale


Quando sbarcai a Parigi, qualche anno fa, la mia vocazione letteraria vacillava come una navicella in un mare in tempesta. Ondate di teoria avevano invaso la mia stiva e l’orizzonte era diventato un punto invisibile, che naturalmente mi sfuggiva, ccupato come ero a mantenermi a galla.
   
Se non sono andato a fondo lo devo all’arte della prosa di Italo Calvino e all’arte del romanzo di Milan Kundera. Nella prima edizione de L’arte del romanzo (1986, trad. it. 1988) Kundera pone Calvino tra i romanzieri e non tra gli scrittori in prosa (nell’ultima edizione francese del 1998 il nome di Calvino è scomparso dalla lista dei romanzieri). Mentre il romanziere, dice Kundera «non dà grande importanza alle proprie idee. È uno scopritore che, a tentoni, si sforza di svelare un aspetto sconosciuto dell’esistenza», lo scrittore «ha delle idee originali e una voce inimitabile. Può servirsi di qualsiasi forma (compreso il romanzo) e tutto ciò che scrive, essendo contrassegnato dal suo pensiero, esposto dalla sua voce, fa parte della sua opera».

   
Durante uno dei suoi ultimi corsi, il cui titolo era Romanzo e musica – si ascoltava in effetti, grazie a un registratore portatile, molta musica; soprattutto Beethoven; soprattutto sonate; mi ricordo anche di un cartello affisso fuori dalla porta su cui c’era scritto: «Non disturbare. Trasmissione radiofonica» – gli feci notare che mi era sempre più difficile leggere Calvino e cogliere il suo valore all’interno della storia del romanzo. Kundera mi rispose in modo un po’ sornione che probabilmente avevo ragione: «Forse le nostre fonti sono diverse». Che voleva dire? Che le fonti di uno scrittore in prosa non sono le stesse di quelle di un romanziere? E allora – mi domandavo, inghiottito da una valanga di note – ciò che Kundera aveva ripetuto molte volte, e cioè che «il romanziere non deve render conto a nessuno, tranne che a Cervantes», valeva veramente per Calvino? E ancora: la concezione della forma e del personaggio di Calvino erano comparabili a quelle di un romanziere?

Fin dalla mia prima lettura, l’opera di Calvino era per me molto più votata a scoprire i rapporti dell’uomo con il cosmo che a svelare gli aspetti sconosciuti dell’esistenza attraverso dei personaggi.

Ma in questo caso, la parola “prosa”, la parola “romanzo”, avevano lo stesso significato per i due autori?



Dalla parte della Luna

Mi ricordo quel saggio di Calvino, molto conosciuto, La sfida al labirinto (1962), in cui l’autore afferma che ciò che si deve pretendere dalla letteratura è «un’immagine cosmica». A partire dal labirinto dove l’uomo è stato gettato a causa della proliferazione dei saperi, ciò che la letteratura può fare «è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro». Se non si può uscire da questo labirinto di saperi che è diventato il mondo contemporaneo, l’uomo ha almeno il dovere, per Calvino, di disegnare una mappa «la più dettagliata possibile» della sua prigione. Mi viene in mente a questo proposito il racconto finale di Ti con zero dove il conte di Montecristo, imprigionato con l’Abate Faria nella fortezza di If, dopo aver fatto tutti i conti possibili con la sua situazione, conclude che l’unico mezzo per evadere è forse quello di «individuare il punto in cui la fortezza pensata non coincide con quella vera».

Il punto di non coincidenza tra il mondo e il pensiero corrisponde allora a quello spazio di libertà artistica dove la costruzione di congetture intellettuali s’associa all’intuizione visuale della poesia, dove la logica scientifica sfida l’immaginazione poetica.

È così che all’epoca cercavo di comprendere l’amore di Calvino per la scienza, l’ascendente galileiano della sua opera.   

Per Calvino nella prosa di Galileo c’è una sintesi perfetta tra una descrizione minuziosa, quasi tangibile dell’oggetto, e una partecipazione poetica che evoca un’immagine visuale dello stesso oggetto. Questa sintesi di precisione e di evocazione Calvino la trovava anche nell’opera di Leopardi. La luna di Leopardi si allea a quella descritta da Galileo, e quest’ultima all’avventura cosmica di Astolfo sul suo Ippogrifo. Il poeta preferito di Galileo, d’altra parte, era proprio Ariosto, «poeta cosmico e lunare». Tra il volo di Astolfo e gli spostamenti magici degli eroi a cavallo di un tappeto, di un uccello o di una nave, il passo è breve. È così che cercavo di comprendere l’amore di Calvino per le fiabe e i racconti della tradizione popolare.

Immaginavo Calvino come uno dei suoi personaggi dal nome impronunciabile, caduto per caso sul nostro pianeta, ma consapevole dei suoi debiti nei confronti della luna, debitore alla luna di quanto si possiede sulla Terra, «a quello che non c’è di quello che c’è», come scrive alla fine di un racconto raccolto in La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche.

Guardare il mondo, disegnare con precisione la mappa «la più dettagliata possibile» di questo labirinto, stando dalla parte della luna: questo mi sembrava, soprattutto dagli inizi degli anni ’60, l’aspirazione dell’arte della prosa di Calvino.

Guardare il mondo, cioè descrivere minuziosamente i suoi oggetti e tutti i suoi esseri. Disegnarne la mappa «la più dettagliata possibile», cioè fare della letteratura un luogo di incontro di tutti i saperi, ricreare lo specchio di un mondo disperso, moltiplicando i metodi, le discipline, i modelli. Infine, da un’immagine, da una descrizione particolare redigere un catalogo di possibilità interpretative; o al contrario, da un’informazione generale, da un postulato scientifico, da un’usanza antropologica ritornare a un’immagine, a un oggetto particolare, a una storia. È così che cercavo di comprendere l’ideale enciclopedico dell’opera di Calvino.

Ma guardare il mondo, stando dalla parte della luna, che cosa significa? Forse questo: concepire l’uomo come un elemento del cosmo, un elemento non necessariamente privilegiato, un’occasione come un’altra attraverso la quale il cosmo organizza le sue forme; significa anche concepire la prosa come un ponte tra i modelli infiniti di conoscenza e l’esperienza individuale, essa stessa concepita come un’enciclopedia, un precipitato di elementi senza tregua combinabili.

Il fatto di stare dalla parte della luna nasconde, inoltre, un’aspirazione infinita, un desiderio di armonia tra l’uomo e il tutto, tra una forma particolare e la molteplicità delle forme, tra ciò che è umano e ciò che non è umano, un desiderio di identificarsi e di dare la parola a tutto ciò che non la possiede. Questo desiderio, che appartiene da sempre alla poesia, Calvino lo ha introdotto nella sua prosa, diventando alla pari dei suoi maestri di questo secolo a lui più vicini, Valéry, Borges e Queneau, un poeta della prosa: poeta della prosa per la sua immaginazione visuale, per il suo spiritus phantasticus; per la forma della sua composizione, sempre breve, in cui ogni elemento è allo stesso tempo una parte del tutto e un organismo autonomo; per la varietà dei suoi registri retorici; per l’importanza data ad ogni capitolo, ad ogni frase, ad ogni parola; e infine per la sua vocazione cosmologica che pone l’uomo non di fronte alla Storia, ma all’universo.



Il libro del moderno Astolfo

Tuttavia, se si concepisce come Calvino, «ciò che non c’è», l’infinito,«il mondo non scritto», ciò che si crea e si disfa perpetuamente come l’orizzonte sempre necessario, capace di darci «ciò che c’è», «il mondo scritto», due problemi si pongono all’autore, al suo desiderio di raccontare la continuità delle forme.

Il primo è definito da Calvino nel modo seguente:

È possibile raccontare una storia al cospetto dell’universo? Come è possibile isolare una storia singolare se essa implica altre storie che la attraversano e la ‘condizionano’ e queste altre ancora, fino a estendersi all’intero universo?

La soluzione formale di Calvino è quella dell’arte della combinazione, soluzione che Calvino trova, prima di incontrarla alla scuola parigina degli strutturalisti e all’interno del circolo dell’OULIPO, ritornando ancora una volta a Galileo: «È l’alfabeto, secondo Galileo, la più grande invenzione fatta dagli uomini, perché con le combinazioni d’una ventina di segni si può render conto di tutta la multiforme ricchezza dell’universo». Ogni costruzione di una «immagine cosmica» è possibile a partire da pochi elementi. Questa è la legge anche delle fiabe e dei racconti popolari. La logica della scienza e l’immaginazione visuale della poesia si alleano così allo sguardo sul destino dell’uomo.

Prendendo a prestito dall’infinito e universale serbatoio della narrazione delle forme già pronte e combinandole tra loro, Calvino giunge a creare delle «macchine narrative», dove la porzione finita del racconto visibile si lega continuamente a una catena di racconti infiniti e invisibili (si pensi al Castello dei destini incrociati, alle Città invisibili, a Se una notte d’inverno un viaggiatore). Ciò che interessa a Calvino non è un racconto particolare, ma il potere narrativo di ogni racconto, l’autorità che emana dal nocciolo antropologico di ogni racconto. E aggiungerei: ciò che interessa a Calvino è di creare una forma, una porzione di ordine esistente che, grazie al suo potere narrativo potenziale, sia capace di far scorgere ogni volta i suoi debiti nei confronti di ciò che non esiste. È ancora l’ironia cosmica e lunare di Ariosto che mette in moto la «macchina narrativa potenziale», è il suo gusto per l’avventura fantastica sempre possibile che si lega all’avventura della scienza, alla curiositas galileiana per l’infinito montaggio e smontaggio matematico-geometrico dell’universo che è alla base della forma letteraria di Calvino.

Il secondo problema, che diventerà con il tempo la vera ossessione tematica di Calvino, lo chiamerò “il problema del libro di Astolfo”. Ed è ancora l’autore che, sempre in forma interrogativa, se lo pone:

Qual è il potere della parola che il libro magico racchiude? Può la parola cambiare il mondo? O piuttosto la parola ha il potere di dissolvere il mondo, d’essere mondo essa stessa, di sostituire la propria totalità a quella del mondo non scritto?

Non bisogna dimenticare che l’avventura di Astolfo è possibile grazie al libro magico di Atlante. Solo quando il libro è nelle sue mani, Astolfo può salire in groppa al cavallo alato e volare sulla luna. Ma se il libro, per colpa di un mago ancora più diabolico di Atlante, invece di aiutare Astolfo a guardare il mondo dalla luna, facesse sparire questo mondo, che cosa succederebbe? Una vegetazione di segni, di parole, di nomi ricoprerebbe la superficie della terra e l’avventura di Astolfo si trasformerebbe nella ricerca ansiosa e mortale di Palomar perduto nella foresta delle interpretazioni infinite dell’universo.

Se il modello formale per la costruzione dell’opera resta l’alfabeto, l’arte della combinazione di pochissime lettere che possono render conto della ricchezza infinita e potenziale dell’universo non scritto, il rischio, la tentazione sempre presente del moderno Astolfo è quella di vivere la propria vita, le proprie esperienze grazie al potere magico del libro. L’universo, per Calvino, non è un libro, ma può essere scritto e letto come se fosse un libro: di qui la tentazione del moderno Astolfo di interpretare i vocaboli dell’esistenza individuale a partire dalle voci dell’enciclopedia dei saperi.

Nel racconto Sotto il sole giaguaro un marito e sua moglie viaggiano come turisti in Messico. La loro vacanza è segnata soprattutto dal desiderio di conoscere la gastronomia del paese – questo desiderio in realtà ne nasconde un altro, quello erotico, anch’esso apparentemente “in vacanza”.

Verso la fine del racconto, dopo numerose degustazioni, la coppia si ritrova ancora a tavola. Vengono servite delle «gorditas pellizcadas con manteca», una specie di polpette “paffuttelle” con “pizzichi” di burro. Il marito le sta letteralmente divorando e così facendo gli sembra di assaporare la fragranza erotica del corpo della moglie. Ma improvvisamente si accorge che tra il suo io, la polpetta e sua moglie s’introduce sempre un quarto termine, “il nome delle polpette”. «Era il nome gorditas pellizcadas con manteca che io gustavo soprattutto e assimilavo e possedevo. Tanto che la magia del nome continuò ad agire su di me anche dopo il pasto...». Una volta nella loro camera d’albergo la coppia rompe l’incantesimo di cui era stata vittima fino a quel momento e ritrova l’amore. Ma, mi chiedo, che cos’é l’amore che nasce non da un piatto di polpette concrete, ma dal loro nome? Non è forse l’annullamento dei confini tra il corpo e il libro? La vittoria della gastronomia sul gusto personale? Della cultura sui sensi? Della “scienza” sulla saggezza?

Il turista di Sotto il sole giaguaro, lo scrutatore, Marco Polo e Kubla Kan, Palomar sono tutte varianti della stessa figura di questo moderno Astolfo, da sempre cavaliere errante e avventuroso, amante della scoperta di altri universi, ma irretito dalla magia combinatoria dei segni, ossessionato dalla lettura del suo libro magico, senza il quale, egli è tentato di constatare, la sua avventura non è ormai più possibile.



Il terra terra

All’epoca delle mie letture di Calvino all’interno dei seminari sul romanzo europeo di Kundera, anch’io, come molti altri miei coetanei, ero caduto preda di ciò che chiamavo “alessandrite”. Come si manifestava questa malattia?

In due modi. Da una parte, grazie a una formazione universitaria altamente teorica che riduceva ogni opera a “testo”, cioè a “un insieme di segni”, avevo perduto completamente di vista la dimensione individuale dell’arte. Dall’altra, siccome potevo leggere ogni cosa come un “testo”, romanzi, poesie, novelle, fumetti, films, ma anche i miei sogni, la mia vita incosciente, le mie relazioni amorose e sessuali, il mondo era diventato un enorme Ur-text. L’ossessione di decifrare gli avvenimenti a partire da una lettura testuale della vita faceva evaporare ogni ricerca esistenziale. Era la tentazione del moderno Astolfo che vivevo nelle mie proprie carni. Ero lavorato interiormente da questa avventura dello spirito teorico come una coppa finemente cesellata. Solo che io non riuscivo ad arrampicarmi fino alla luna per gustarne il dolce e nutriente latte. Purtroppo, a differenza del personaggio di Calvino, io non avevo alcuna vocazione cosmologica!

L’arte della prosa di Calvino poteva cavalcare la scienza, rendere visibile l’invisibile, guardare con ironia cosmica e lunare le sue conquiste. Ma questa cooperazione che pretendeva di umanizzare la scienza, mi sembrava allo stesso tempo soffocare l’arte, il custode più specifico e personale della forma umana. Mi sembrava che Calvino, per non cadere vittima della tentazione di sostituire il mondo con il libro, si era lanciato in una “naturalizzazione” della Storia, proiettando l’individuo di fronte all’universo, lontano, sempre più lontano dal suo tempo presente. Ma, così facendo, egli aveva a tal punto formalizzato i suoi personaggi che, mi dicevo, invece di essere degli «io sperimentali» – come Kundera li aveva definiti, il cui scopo è quello di esaminare qualche tema dell’esistenza – essi erano diventati degli io enciclopedici, delle figure esemplari delle infinite possibilità di costruzione e decostruzione del cosmo. Essi abitano la Terra, pensavo, ma il personaggio romanzesco è molto più modesto: lui abita il pianeta del terra terra.

Il romanzo, come affermava Kundera, fin dalle sue origini con Rabelais e Cervantes, aveva ricacciato per sempre l’eroe dell’epopea in basso, nel mondo della prosa, dell’esistenza quotidiana, concreta, corporea. L’avventura esistenziale del personaggio del romanzo era nata non dallo spirito teorico e enciclopedico, ma dall’”humour”. E cosa per me fondamentale: uno degli elementi costitutivi del romanzo era proprio la sua lotta accanita e irriverente contro lo spirito teorico e enciclopedico. Fin dall’inizio il romanzo aveva messo radicalmente in questione ogni sapere che non fosse attraversato dall’esperienza personale e dalla libera invenzione creatrice, critica dell’individuo.

Panurge nasce dalla sua domanda: mi devo sposare o no? Egli è la sua domanda, tanto elementare quanto decisiva. Consulta tutti i grandi eruditi che incontra, ma nessuno è in grado di dargli una risposta. Alla fine Panurge non sa quello che deve fare, ma nel frattempo tutto il sapere dell’epoca è stato ridicolizzato grazie alla forza buffonesca della sua semplice domanda. Don Chisciotte è un essere che nasce dalle sue letture. Crede talmente a ciò che legge che si prende per qualcuno che non è, un cavaliere errante. Grazie a questo personaggio che prende così seriamente ciò che legge, Cervantes può distruggere tutta la serietà delle convenzioni erudite e letterarie del suo tempo.

Palomar nasce dallo spirito teorico della sua epoca. Anche lui è creato dalle sue letture scientifiche. Tutto ciò che osserva si smaterializza, perde di consistenza, diventa segno. Ma invece di andare fino in fondo a questa perdita di concreto, egli proietta le sue categorie esistenziali nella volta stellata delle categorie astratte. Palomar è in grado di far “imballare” il motore logico del pensiero scientifico, ma non di rendere la non serietà di questo pensiero. Invece di essere un personaggio dotato di libertà, egli non si libera mai del tutto dalla sua condizione unica di catalogo di possibilità infinite di conoscenza. Quando non può descrivere, consulta la sua enciclopedia. L’ironia esiste, ma è l’ironia cosmica di chi aspira a guardare le cose “dalla parte della luna”, di chi compara il finito all’infinito, il mondo scritto al mondo non scritto, di chi, come Calvino dice alla fine delle Lezioni americane, vorrebbe uscire dalla prospettiva limitata dell’individuo, del self per far parlare «ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica...» .

Tutta un’altra prospettiva, pensavo, rispetto allo sguardo “dal basso” del romanzo, alla scoperta del pianeta del terra terra di Panurge e Don Chisciotte.



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Trame di letteratura comparata  Nr 3/4 2002

© Massimo Rizzante

 

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