domenica 1 agosto 2010

Massimo Raffaeli: Intellettuali, di che parliamo?

  Massimo Raffaeli -

4 agosto 2010

Intellettuali, di che parliamo?

Non è vero che il dibattito sugli intellettuali è così scontato e persino postdatato come il senso comune indurrebbe a credere. Bene ha fatto Alfabeta2 a volerlo riaprire e bene il manifesto a farsene carico. È vero che un simile dibattito sembra avere qualcosa di rituale e anacronistico, in un mondo che si vuole laico e disincantato, ma sta di fatto che gli intellettuali continuano a esistere e, anzi, nella veste più tradizionale di ideologi. Semmai tendono a stare da una parte sola anche quando si dicono bipartisan, perché il mondo adesso si divide in uno. Né vale rimpiangere un mandato antagonista che si è consumato nel secolo scorso, da Zola a Jean-Paul Sartre: oggi si tratta ancora di umanisti e per lo più di scienziati sociali, talvolta di grande caratura, chiamati sui giornali e in tv (perché di questo noi stiamo parlando) a forgiare l'opinione pubblica, o come la vogliamo chiamare.

Fatto sta che la loro personale opinione volentieri si accoda alle cosiddette idee ricevute, ovvero le ripete con particolare petulanza, tanto che a Ignacio Ramonet è venuta l'immagine del Pensiero Unico, cioè un pensiero che sostituisce la dimostrazione con la ripetizione. Un solo esempio: vent'anni di neoliberismo hanno portato ad una crisi rovinosa eppure le firme dei maggiori quotidiani, quasi tutte, ripetono la favola del libero mercato e brandiscono il credo della deregulation come se niente fosse. A costoro si è rivolto di recente il filosofo Slavoj Zizek: «Il modo in cui i fondamentalisti del mercato reagiscono ai risultati distruttivi dell'applicazione delle loro ricette è tipico degli utopisti 'totalitari': biasimano il fallimento dei compromessi da parte di chi mette in pratica le loro idee (c'è ancora troppo intervento statale ecc.) e domandano un'applicazione ancor più radicale della dottrina del mercato». Infatti Angelo Panebianco, per citarne uno, ragiona con la stessa logica dei sovietici, i quali, al cospetto del disastro in Urss, replicavano obiettando nient'altro che un deficit di applicazione del sistema. Dunque, chi decide di uscire dal contenzioso specialistico, entra necessariamente nella doxa: quella consacrata dalla globalizzazione vuole che il mondo così com'è sia anche il migliore dei mondi possibili.

Ma chiunque abbia uno spazio all'interno dell'industria culturale sa, o dovrebbe, che la sua voce è a rischio, che dire «io» può essere una stolta illusione, perché sono i contesti a orientare la destinazione dei testi, non viceversa. E questo vale anche per le postazioni minoritarie e più che mai per il pulviscolo dei blog dove vengono spesso simulate la spontaneità e l'immediatezza. Il lamento sulla carenza o la scomparsa degli intellettuali è equivoco, non soltanto nostalgico.

Un nostro maestro, Franco Fortini, insegnava a distinguere tra il ruolo e la loro effettiva funzione. Il numero degli ideologi e degli opinionisti, termini ormai sinonimici, testimonia del fatto che il ruolo è ipertrofico mentre la funzione è deficitaria. Si danno molti casi di intellettuali ben arruolati (spesso coloro che inscenano la cerimonia dell'anticonformismo) ma non sono molti, dopo tutto, quelli che esercitano una funzione critica, vale a dire chi sappia, secondo l'etimologia, «distinguere, valutare, giudicare». Qui è necessario un certo distacco, saper discernere fra le parole, le immagini, le scritture che costituiscono la razione quotidiana di ognuno. Non è per niente facile, e va aggiunto che l'industria culturale, pressoché ubiquitaria, moltiplica le occasioni, le intimità, le forme di sostanziale complicità. In Italia la corporazione si è presto mitridatizzata, giovandole sia l'ipocrisia cattolica sia un'antica abitudine all'opportunismo. Quanto a ciò, Paolo Febbraro ha già risposto parlando di dedizione etica al lavoro, Daniele Giglioli di critica del senso comune (e precisando opportunamente: «Ad essere redistribuite sono le competenze, non lo spirito critico»), Emanuele Trevi infine di attenzione alla concretezza, citando una frase di Flannery O'Connor che diffidava gli intellettuali dal «vivere in un mondo che Dio non ha mai creato».

Appunto, siamo tutti qui, in un mondo che nessun dio ha mai creato. Sono gli uomini, come sappiamo, che gli hanno dato un certo ordine. E noi viviamo in un ordine che non solo si fonda sulla disuguaglianza sociale, sullo sfruttamento economico, sulla guerra, ma è tornato da tempo a ritenere questi fatti ovvi, naturali, immutabili, se non desiderabili: sono stati degli intellettuali a renderne possibile la metabolizzazione, a trasformarli in veri e propri tabù. Ci si può chiamare fuori e presumersi innocenti? No, è ovvio. Ma è nella facoltà di ognuno, tuttavia, provare a pensare/leggere/scrivere come se la disuguaglianza, lo sfruttamento, la guerra non fossero le cose ovvie, banali, che sono diventate ma cose ripugnanti all'intelletto umano, cose, alla lettera, disumane.

Un sinistro automatismo, nell'opinione dominante, ascrive alla pura retorica questioni che sono invece capitali, essenziali alla sopravvivenza del genere umano. Le nostre attuali società dispongono di tali strumenti comunicativi da annientare il minimo sospetto che possa esistere una alterità. In fondo, se c'è un'idea che accomuna la stragrande maggioranza degli intellettuali è proprio l'idea che le nostre società non possano essere più modificate se non nell'ambito dei ceti amministrativi o comunque addetti alla manutenzione. Nella neo-lingua del ventunesimo secolo riformista significa infatti conservatore.

Perciò non si può fare molto ma qualcosa si può sempre fare. Cominciando dalla critica della presunta normalità in cui ci ritroviamo a vivere, a lavorare, a pensare. Non basta proclamare la propria indipendenza: Brecht, nel celebre congresso antifascista di Parigi, 1935, gelò l'uditorio con una semplice richiesta: «Parliamo, per favore, dei rapporti di proprietà». È una domanda che molti intellettuali oggi troverebbero puerile, impudica, impossibile. C'è un passo del Talmud, meraviglioso, dove è scritto che quando uno dice che una cosa è impossibile di solito non la vuole.

Il manifesto   - - - -
© Massimo Raffaeli



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