mercoledì 11 agosto 2010

Massimo Rizzante: dopo l'esilio - 3. Castigo e liberazione

Massimo Rizzante   

2008

Dopo l'esilio

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3. Primavera 1999
              Castigo e liberazione
      

     Quando gli autori si credono più intelligenti delle opere che scrivono, la letteratura è morta da molto tempo. Oppure essa sopravvive nelle sue forme alessandrine: una letteratura in cui ogni autore può esplorare qualsiasi tema, - giocare qualsiasi gioco - essendosi rotto il legame tra forma e esistenza.
      Era la primavera del 1999. Mi trovavo a Roma. Il “tema” dell’esilio (“il modello”? “la metafora”?) non mi aveva abbandonato, ma dormiva, raggomitolato in un angolo della mia anima come un “povero animale” anchilosato che ha perduto il suo padrone.

     Leggevo le bozze del romanzo di Sylvie Richterová [Second adieu] che sarebbe uscito alla fine dell’anno in Francia. 
    
      L’intero romanzo è un continuo pellegrinaggio di padri, madri, sorelle, amici, amanti da un capo all’altro dell’Europa e del mondo.  Ma dovunque ci si imbatte nello stesso paesaggio, nella stessa assenza di frontiera tra bellezza e desolazione, tra passato e avvenire, dovunque lo stesso presente “unico e definitivo” senza un altrove dove andare o ritornare. I personaggi   esplorano “la condizione che chiamiamo esilio” come se essa fosse ormai permanente: essi annunciano la banalità definitiva dell’esilio. Il loro errare coinciderebbe con quello di tutti i turisti del globo, se essi non fossero animati dal desiderio di “nascondere scrupolosamente” la loro vita segreta, se non possedessero quell’istinto e quell’ostinazione nel volerle dare una forma. Sono esuli che incarnano l’addio a un’epoca in cui l’esilio poteva ancora essere compreso come castigo (Dante) o liberazione (Linhartová).


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© Massimo Rizzante - tratto da  "Non siamo gli ultimi" 

 

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