domenica 1 agosto 2010

Paolo Febbraro: intellettuali ed eslio

  Paolo Febbraro -

27 luglio 2010

intellettuali ed eslio

Nel 1815, appena tornati a Milano dopo la lunga parentesi napoleonica, gli Austriaci chiamarono Ugo Foscolo e gli offrirono ‒ dietro lauto stipendio ‒ la direzione di un periodico culturale che chiamasse a raccolta gli scrittori volenterosi di dare un sapiente contributo al ritorno del “buon governo” asburgico. Foscolo rispose di sì; ma la notte del 30 marzo partì per la Svizzera, esiliandosi.


Propongo di eleggere questa storia a emblema del rapporto fra intellettuali e potere, almeno in Italia. Sul primo numero di «Alfabeta 2», uscito lo scorso 8 luglio e dedicato alla figura dell’intellettuale militante, Umberto Eco e Andrea Cortellessa hanno scelto invece il celebre J’accuse con cui Émile Zola diede inizio al caso Dreyfus: scelta non indifferente, poiché solo rievocare quel titanico episodio conduce a chiedersi sconsolatamente dove mai saranno, oggi, gli scrittori della caratura di Zola. La parabola foscoliana, invece, ci fa cogliere perfettamente l’incrocio fra i difetti possibili del tipico ‒ anche se grande ‒ intellettuale italiano e quelli del tipico ‒ anche se straniero ‒ regime italiano: occupazione dall’alto, proposta di complicità, persecuzione.

Gli intellettuali militanti, in Italia, sono stati fascisti e antifascisti, persino “fascisti di sinistra”; e poi organici al Partito operaio di massa, o compagni di strada, o utili idioti, o coscienze critiche. C’è stato anche chi, come Leonardo Sciascia, dal fondo di un pessimismo ragionato, non ha mai smesso di spendersi per la rottura della continuità italiana, facendo della propria Sicilia una metafora pervasiva, almeno quanto lo è la sua mafia. Ma se prendiamo come archetipo il nostrano Foscolo invece che il francese Zola ‒ lontano figlio di un 1789 che in Italia non si è mai dato ‒, la nostra visione dell’intellettuale cambia, e cambia forse anche il nobile ricatto che oggi cade sulle nostre spalle. In Italia, l’intellettuale è uno che si adopera, lotta e poi va in esilio, disgustato di tutto e di tutti. E se volessimo affiancare a Foscolo, troppo artista, un intellettuale privo di ogni romanticismo alla Jacopo Ortis, basterebbe ricordare Carlo Cattaneo, morto a Lugano e, deputato, mai entrato in Parlamento per non giurare fedeltà ai Savoia.

Se si ha ancora la mente a Zola, Foscolo e Cattaneo sembrano dei traditori. A me invece sembrano un emblema forse non obbligato, ma certo efficace. E lo si capisce da un’altra data, a noi più vicina ma non meno decisiva: la primavera del 1994.

È un momento perfetto, una provetta trasparente che può far osservare un procedimento chimico col minimo possibile di incrostazioni e deviazioni ottiche. L’Italia si è scrollata di dosso almeno vent’anni di malgoverno democristiano e di corrotto modernismo craxiano; le imprese hanno individuato nella magistratura lo strumento per liberarsi dalle tangenti loro imposte dai partiti, da tempo incapaci di contraccambiarle con le necessarie riforme; caduto il muro di Berlino, non esiste più lo spauracchio del PCI e la sinistra è smarrita ma immensamente più libera; in Sicilia è stato arrestato Totò Riina, segno che i vecchi equilibri di potere stanno cambiando; il sistema elettorale è in buona parte maggioritario, e dunque sfugge al dominio delle segreterie di partito, esaltando lo scontro fra persone e storie individuali; negli Stati Uniti governa il democratico Clinton, che non ha pregiudiziali. E cosa accade, in questa Italia in libera uscita, meno ricattabile, non ancora sommersa dallo strapotere televisivo di un solo uomo, bruscamente risvegliatasi dall’edonismo degli anni Ottanta grazie a una crisi economica severa, che induce alla riflessione e all’autocritica?

Questa Italia dà la maggioranza dei seggi a Berlusconi, già appartenente alla loggia eversiva P2, amico di quel Craxi sfuggito alle inchieste con la fuga, sorridente propagatore di imbonimenti mediatici. Con questo, la Storia italiana giunge al punto di non ritorno. Proprio quando con l’attivismo delle procure ogni italiano mediocremente informato può riprendere il celebre Io so di Pasolini e aggiungevi e ho anche le prove, la maggioranza degli italiani si consegna alla più smagliante, miracolistica, corrotta e corruttrice continuità.

È stato ribadito ‒ da Andrea Inglese, sempre su «Alfabeta2» ‒ che l’incisività dell’intellettuale sulle vicende pubbliche contemporanee è caduta non tanto per la minore qualità degli intellettuali odierni, quanto per la maggiore potenza guadagnata nel frattempo dai media dell’urlo e dell’intrattenimento. In altre parole, il J’accuse di Zola, apparso sulle trecentomila copie dell’«Aurore», non può competere, oggi, con i trenta milioni di utenti che a fine giornata si sintonizzano su uno qualunque dei telegiornali di regime. Tutto giusto. Ma è giusta anche un’altra cosa: che l’intellettuale ha compreso che non vale più la pena di lottare. Privo dell’orizzonte ideologico che spinga per una palingenesi socio-politica universale, privo anche ‒ lo ha sottolineato ancora Andrea Inglese ‒ dei decorosi stipendi universitari, chi pensa e scrive, oggi, sente che il popolo italiano, giunto vent’anni fa al massimo grado di democrazia e di alfabetizzazione della propria Storia, non è stato ingannato, non si è dovuto neppure “turare il naso” per scampare a un male peggiore: ha scelto, consapevole e felice, ciò che gli assomiglia, delegando ai propri astuti servitori l’esercizio di quel potere che altrimenti implica estenuanti azioni di controllo e un rigore morale, prima che amministrativo, estremamente oneroso sul piano dei comportamenti.
Compreso tutto ciò, l’intellettuale ha capito anche che il proprio J’accuse, oggi, non si riferirebbe più a una casta di privilegiati, arroccata e feroce, ma a qualche decina di milioni dei propri pari, quei “pari” che sono tali grazie agli irrinunciabili diritti civili e politici che egli stesso, cento o sessanta anni fa, ha contribuito ad estendere. E dunque, fa come Foscolo e Cattaneo. Abbagliato dall’altrui libertà, quasi ammirato da come la democrazia, nella sua piena e prevedibile esplicazione, si risolve nella negazione dei propri presupposti, si autoesilia nella piccola, miserrima Svizzera che gli viene concessa, e mantenendo in buona forma la propria potenza fantastica, la chiude sdegnato in messaggi diretti a cinquecento persone. Lottando strenuamente affinché diventino cinquemila.

Così facendo, sfugge a due cattive ingenuità. La prima è quella di Umberto Eco, che nell’articolo di apertura di «Alfabeta 2» ha parlato dell’intellettuale «libero e disorganico», capace di «ficcare il naso in questioni che non dovrebbero riguardarlo». Quando proprio Eco, però, ha contribuito in maniera determinante alla liquefazione della differenza fra alto e basso, fra apocalittici e integrati, fra critica e infinita aneddotica semiologica, trascinandoci nell’euforia postmoderna del riuso. La seconda, evocata e implicitamente combattuta nell’articolo di Cortellessa, è la posizione di Emanuele Trevi, secondo cui «l’artista è colui che incarna al massimo grado questa condizione di essere singolo e irriducibile, incapace di venire a patti con la vita intesa come fatto collettivo, convivenza, responsabilità etica. […] Ed è proprio in questa incomprensione radicale […], è proprio in questa idiozia senza rimedio che si annida (come una malattia mortale, non come un privilegio) la sua capacità di visione, di allucinazione, di decostruzione del reale». Col che siamo in pieno decadentismo. Non a caso Trevi parla di artista, e non di intellettuale, figure che possono coincidere o meno. L’artista di Trevi dovrebbe per coerenza esimersi dal pubblicare alcunché, e condurre una vita vagabonda, da “spostato” o suicidato della società, verso solipsismi stupefacenti, e allucinazioni provocate, più che provocatorie. Con la sua vecchia aureola romantica, Trevi parla dell’idiozia (secondo etimo, il far parte per sé stessi) come di una malattia mortale. In realtà, se l’idiota non capisce le più convenzionali menzogne dell’esistenza collettiva, è perché non vuole capirle, e in quel non volere le ha già capite benissimo. Peraltro, solo vivendole le si comprende: altrimenti si guarda il mondo dei cattivi da una nuvola, con una purezza che non esiste, se non come ricatto morale. L’esilio di Foscolo e Cattaneo non è un partito preso en artiste: è una precisa azione, rigorosamente post factum.

La soluzione è solo nel lavoro quotidiano, pur ormai proletarizzato e marginale, come quello dell’insegnamento, o ridotto a catena di montaggio per il successo, come quello editoriale. Lavoro che consente vittorie parziali e compagnie impreviste: quando l’intellettuale (tutt’altro che singolo e irriducibile) sposa persone morte da secoli, o da decenni, trovate vive sulla via di una propria tradizione.
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Il manifesto27 luglio 2010   - - - -
© Paolo Febbraro -  

  

 

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