lunedì 16 agosto 2010

per Fernando Arrabal (da tradurre poesia di massimo Rizzante)

  Massimo Rizzante


10 giugno 2010

La sua opera è monumentale. La mia contabilità risale al 2007, e quindi sarà certamente imprecisa per difetto: 21 volumi di pièces teatrali, 15 romanzi, 5 raccolte poetiche, 19 testi saggistici e lettere aperte, più di 750 libri per bibliofili, a cui oggi bisogna aggiungere i 5 libri contenenti 20 sue poesie di 20 versi ciascuna e illustrati da altrettante litografie di Yu Minjun, Wang Guangyi, Zhang Xiaogang, Yang Shaobin e Wang Qing Song.

Ogni volta che leggo una sua pagina di romanzo, di teatro o una sua poesia mi domando se, di fronte all’opera di Arrabal, il mio mondo non abbia dimenticato per sempre il gusto per l’assurdo. Mi sento un erede senza eredi alla frontiera di due mondi: il mondo di Arrabal e il mio mondo, un mondo in cui, alla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, si è aggiunta quella dell’uomo, senza che ciò turbasse gli ingegni che, nel loro procedere alla clonazione della realtà, si stanno condannando alla sterilità onirica. Contro la divina non serietà di Arrabal, il mio mondo oppone oggi soltanto il sorriso disincantato di un’arte che ricicla la sua storia: intravedendo la possibilità della sua fine, essa vuole vendicarsi di ciò che ha creato in passato e, per non soccombere, cerca di fare di questa vendetta un piacevole intrattenimento.


Pochissimi artisti oggi sono in grado di concepire così seriamente il gioco e la libertà formale come attributi specifici della loro opera. I fatti sembrano aver vinto sull’immaginazione e non stimolano più il desiderio concreto dell’artista: essi sono il concreto. In altre parole, l’arte è stata fagocitata dal suo contrario: l’informazione. Si limita a soddisfare la sua pulsione all’informazione – storica, sociale, politica, sessuale.
L’intera opera di Arrabal, con tutte le sue ossessioni orgiastiche, cerimonie animalesche, gioiose depravazioni e avventure gratuite, è al contrario una sfida dell’immaginazione alla terribile serietà della Storia del XX secolo, una sfida sia politica – sebbene egli sia tutto fuorché un contestatore militante – sia personale – egli incarna il figlio alla continua ricerca di un padre perduto nell’inverno della Guerra Civile.

Mi chiedo: la sfida di Arrabal, benché la Storia non abbia certo smesso di rivelare il suo volto diabolico – il silenzio ermetico dei tribuni a vent’anni dalla strage di piazza Tienanmen ne è una prova – è ancora tra noi? Voglio dire: il mondo dell’uomo nuovo, il mondo del XXI secolo, è un mondo in cui lo sguardo irriverente dell’arte moderna ha smesso di sfidare il volto terribilmente serio della Storia? Ha smesso, cioè, di richiamarsi alle possibilità dell’immaginazione al fine di voltarle le spalle – quando non di mostrarle il deretano?

Quello che so è che anche nel caso di queste sue poesie, che accompagnano le litografie dei cinque artisti cinesi, lo sguardo di Arrabal non ha smesso di sfidare la Storia, unendo ogni volta la sua vicenda a quella di un’altra civiltà, la sua vicenda di europeo segnato dalle vittorie dell’immaginazione europea e dalle sconfitte della Storia europea.

In una poesia, che troviamo accanto a un volto assorto e quasi pietrificato di Zhang Xiaogang, Arrabal diventa lui stesso quel volto, il quale, a sua volta, «la mano posata sulla fronte», diventa quello di Don Chisciotte, padre di tutte le sue avventure:

Lassé du carnaval des spectres
Et du cirque des défilés
J’essaie, Quichotte, main appuyé sur mon front
Tête levée vers les nuages
De me rappeler qui je suis



In un’altra poesia, posta accanto a una folla di volti sconquassati dal riso che hanno sullo sfondo le piroette di alcuni pianeti, opera di Yue Minjuin, l’autore riconosce Saturno e i suoi anelli:

Deux planètes dont l’une ceinte de son anneau
Ne peut être que Saturne.
Mais rien de saturnien dans ce carnaval du rire.
Tous ces fous vont sans doute périr écrasés
Pulveérisés en une indicible et formidable
Apocalypse dont il n’aperçoivent même pas la menace.



Non c’è niente di saturnino nei volti ridenti di Yue Minjuin. Eppure, grazie a un solo verso, Arrabal riesce ad andare all’anima di quel riso apparentemente dissacratore. Infatti «il carnevale del riso», in questo nostro XXI secolo, ancor più che nel secolo precedente, confina senza soluzione di continuità con il «carnevale degli spettri» – così come i volti pensosi e talvolta screziati di Zhang Xiaogang non sono che il risvolto di quelli ridenti di Yue Minjuin.

Oggi la frontiera tra comico e orrore, ancor più che all’epoca di Kafka, è sempre più labile e l’urgenza economica e materiale di sopravvivere è tale da mettere a repentaglio ogni altra forma di sopravvivenza spirituale. Arrabal e i suoi «fratelli maggiori», Kafka, Buñuel, Fellini, lo sapevano. E anche i suoi amici e artisti cinesi, a loro modo, lo sanno: «l’indicibile e formidabile Apocalisse» di cui nessuno sembra percepire la minaccia, ha sempre lo stesso volto: il volto serio e innocente di quei giovani militanti pronti a morire per i loro ideali, il pugno levato al cielo, immortalati da Wang Guangyi. Quei volti, come scrive Arrabal in una poesia intitolata “Image et pouvoir”, non sanno pronunciare in silenzio l’antico precetto: «Je doute, donc je suis», ma solo gridare «en rouge, en noir, en bleu» il ritornello dell’umanità in uniforme: «je crois et je suis les précepts».

© Massimo Rizzante

pubblicato su Absolute Ville nella rubrica:  tradurre poesia   - - - -

© Massimo Rizzante - "tradurre poesia" 



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