mercoledì 25 agosto 2010

precipitando nel presente i / iv

  Alessandro Corio

precipitando nel presente
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Liminalità, marginalità e controcultura nelle forme contemporanee dell’identità diasporica

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“Per rinascere” cantò Gibreel Farishta, precipitando dai cieli, “devi prima morire. Ho-ji! Ho-ji! Per scendere sulla terra rotonda, bisogna prima volare. Tat-taa! Taka-thun! Come puoi ancora sorridere, se prima non avrai pianto? Come conquisti il cuore del tuo amore, signore, senza un sospiro? Baba, se tu vuoi rinascere …” Poco prima dell’alba di una mattina d’inverno, il giorno di Capodanno o pressappoco, due uomini, reali, adulti e vivi, cadevano da una grande altezza, seimila metri, verso la Manica, senza l’ausilio di paracadute o di ali, da un cielo limpido.
[Salman Rushdie, I versi satanici]
Se fosse possibile uno sguardo dall’alto sul nostro presente; se fosse auspicabile, e non è detto che lo sia, sorvolarlo “ad alta quota”, come da un aereo, che cosa vedremmo? Sarebbe questo un punto di osservazione privilegiato, che ci permetterebbe di interpretare le complesse dinamiche in atto, le strategie che individui e comunità realizzano per risiedere o per spostarsi tra contesti che si trasformano in continuazione e tradizioni che si contaminano, oppure non sarebbe altro che l’ennesima miope prevaricazione di un pensiero universalista che sovrappone indiscriminatamente le proprie categorie e le proprie mappe ad un territorio estremamente complesso, intrecciato, pieno di zone d’ombra e che non si presta a nessuna interpretazione rigida e definitiva? Non sarebbe quindi meglio partire dal basso, in medias res, nel mezzo anche se non in centro, ed aggirarsi come tra i vicoli labirintici di una medina, lasciandosi travolgere da un salutare spaesamento, dall’impossibilità di decodificare con sicurezza i segni e le voci che ci circondano, provando l’incertezza e il fascino di sentirsi estranei, in fin dei conti stranieri? E se ad un certo punto ci rendessimo conto, con stupore e spavento, di non trovarci in chissà quale luogo esotico e lontano, ma “a pochi passi da casa”? Sarebbe allora più consolante tornare con la mente al celebre adagio di Ugo di San Vittore, che nel IV secolo affermava: “L’uomo che trova dolce il suo luogo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è quello per cui l’intero mondo è un paese straniero”.

Il celebre romanzo di Salman Rushdie I versi satanici, presenta sin dalle prime pagine una splendida metafora della condizione di spaesamento doloroso, ma anche ricco di possibilità, del soggetto post-coloniale e della sua complessa relazione, che cercheremo di indagare in questo breve saggio, con le questioni dell’identità, dell’appartenenza culturale, della diaspora, della soggettività migrante, a loro volta necessariamente connesse a quelle della cittadinanza, dei diritti, del riconoscimento, della rappresentanza ecc., che interrogano il presente delle nostre società. I personaggi del romanzo di Rushdie precipitano. Sbalzati fuori da un aereo stanno cadendo a velocità folle, ma noi seguiamo attraverso i loro occhi e i loro corpi volteggianti il violento destino di traduzione e di dislocazione che li trasporta in un altro luogo, in una complessa soglia metropolitana ben distante dalla loro patria nel subcontinente indiano: Londra,  “la città grande, putrida, bella, nevosa e illuminata, Mahagonny, Babilonia, Alphaville […]”.  Ma la funambolica narrazione di Rushdie concede ben poco alla razionalità e alla linearità e la caduta vorticosa di Gibreel Farishta e di Saladin Chamcha evoca un’altra caduta, al limite incerto tra l’angelico e il diabolico. Ciò che avviene ai due protagonisti, mentre precipitano dall’aereo esploso improvvisamente in mille frammenti, è una metamorfosi, una trasmutazione, una rinascita, una “traduzione”. L’angelo Gibreel, nella tradizione islamica, è colui che detta le parole di Allah, i sacri versi del Qur’an, al profeta Muhammad; egli è il veicolo della rivelazione. Ed è proprio una rivelazione, a detta di un narratore irriverente che ironizza sulla propria presunta onniscienza, quella cui assistiamo. Quando l’aereo si spacca, non sono soltanto dei corpi e degli oggetti che precipitano, ma qualcosa di più. Seguiamo la narrazione:

Chi sono io?

Chi altro c’è lì?

L’aereo si spaccò a metà, un baccello che libera i suoi semi, un uovo che svela il suo mistero. Due attori, l’acrobatico Gibreel e l’abbottonato corrucciato Mr Saladin Chamcha, caddero come briciole di tabacco da un vecchio sigaro rotto. […] Mescolati ai resti dell’apparecchio, egualmente frantumati, egualmente assurdi, fluttuavano i detriti dell’anima, ricordi infranti, ego scartati, lingue madri tagliate, intimità violate, battute di spirito intraducibili, amori perduti e il senso dimenticato di parole vuote e sonanti, terra, proprietà, focolare. […] Gibreelsaladin Farishtachamcha, condannati a questa interminabile, ma anche quasi terminata, caduta angelicodiabolica, non si resero conto del momento in cui iniziarono i processi della loro trasmutazione.1

In questa caduta sono dunque “i detriti dell’anima”, frantumati e assurdi, a mescolarsi e a ricomporsi in una metamorfosi, verso misteriose e nuove combinazioni. Indirettamente e quasi di soppiatto il narratore ci introduce ad alcuni elementi fondamentali: i ricordi, la lingua, le espressioni intraducibili, i legami sociali, l’attaccamento alla propria terra, alla proprietà, alla patria. Tutto ciò si frantuma e si trasforma nel corso di questo precipitare, si cambia e si traduce (nel senso etimologico del termine trans-duce(re) in qualcosa di diverso e di nuovo. Potremmo ridurre, un po’ artificialmente, quest’insieme di elementi a due termini tanto problematici quanto familiari: identità e cultura.

Che cosa si perde? Che cosa si guadagna? Che cosa si trasforma? In un certo senso i due “attori”, abituati alle maschere e alle metamorfosi dell’identità, sono già ben predisposti a questo processo. Infatti Gibreel, mentre precipita, intona i versi tradotti di una vecchia canzone inglese, in un omaggio semiconsapevole alla nazione ospite che si avvicina a loro:  “Oh, le mie scarpe sono giapponesi, […] questi calzoni sono inglesi, pensate. Sulla mia testa c’è un rosso cappello russo; ma nonostante questo il mio cuore è indiano”.2  Si mostra evidente una dinamica di identità e differenza, un’appartenenza profonda, il “cuore indiano”, ed un ibrido trasformismo rappresentato dai suoi abiti provenienti dai luoghi più disparati. La caduta si conclude con un atterraggio sulle “ali” di una misteriosa canzone uscita dalle labbra di Gibreel in una lingua a lui sconosciuta e su un motivo mai udito; le parole angeliche o forse demoniache li salvano, permettendo di compiere il miracolo e la metamorfosi. Ma il capitolo si chiude su una serie di interrogativi, che lanciano al lettore sottili e trasversali messaggi:

Come viene al mondo questa novità? Come è nata?

Di quali fusioni, trasformazioni, congiunzioni è fatta?

Come sopravvive, così eccessiva e pericolosa? Quali compromessi, quali accordi, quali tradimenti della propria natura segreta dovrà fare per sfuggire alle squadre di demolitori, all’angelo sterminatore, alla ghigliottina?

La nascita è sempre una caduta?

Gli angeli hanno le ali? Gli uomini possono volare? […]

Chi compì il miracolo?

Di che tipo era – angelica o satanica – la canzone di Farishta?

Chi sono io?

Diciamola in questi termini: chi conosce le arie migliori? 3

I personaggi di questo rocambolesco incipit del romanzo di Rushdie, lo abbiamo anticipato, possono fungere da metafora degli interrogativi e dei problemi che cercheremo di affrontare. E’ un’affermazione ormai ricorrente e scontata quella che il nostro tempo sia caratterizzato dallo spostamento, dalla diaspora, dal viaggio e soprattutto da un rimescolarsi incessante di popoli e di culture. Questa considerazione però deve essere necessariamente problematizzata e contestualizzata. La nostra trattazione si articolerà in una disamina critica di alcune categorie che si sono ampiamente diffuse, negli ultimi anni, nel linguaggio quotidiano e nel “discorso pubblico” a partire da quello dei media, dei politici e degli intellettuali, e che sono al tempo stesso al centro del dibattito critico degli studi culturali, post-coloniali, antropologici e non solo. Si tratta dei concetti tra loro legati di identità e cultura, la cui “auto-evidenza” deve essere necessariamente sottoposta ad una critica epistemologica e decostruttiva che evidenzi le complesse dinamiche politiche ed ideologico-discorsive che le sorreggono.

Sembra infatti che il discorso intorno alle identità culturali si ponga sempre più al centro del dibattito pubblico sulle forme di organizzazione sociale, culturale e politica nelle società multiculturali, prestandosi ad una serie di semplificazioni e di manipolazioni ideologiche che si allontanano dal concreto terreno delle relazioni tra individui e gruppi sociali per trasformarsi facilmente in “armi ideologiche” atte a costruire nuove forme di consenso politico. Si vedano le recenti ed incalzanti discussioni sulle radici culturali dell’identità europea, le incessanti critiche al relativismo culturale che si associano paradossalmente a visioni che coniugano i residui di un universalismo etnocentrico con la vulgata dello “scontro di civiltà” che rappresenta, come ben sappiamo, proprio il trionfo di quel relativismo culturalista ed essenzialista che legge il mondo come un macro-insieme di culture, etnie o civiltà separate, non comunicanti ed inconciliabili e per questo destinate irrevocabilmente allo scontro.

Queste posizioni spesso semplificatorie ed ideologiche e soprattutto motivate da interessi politici, spingono verso una rigida alternativa tra relativismo ed universalismo che rivela il pregiudizio etnocentrico e l’approccio ancora fortemente colonialista e pertanto razzista che le élites dominanti in Europa e negli Stati Uniti attuano economicamente e politicamente nei confronti del resto del pianeta. Sul piano politico e propagandistico queste posizioni hanno trovato negli ultimi anni pericolosi proseliti nei sostenitori del “clash of civilizations”4, nei propugnatori di una rigida contrapposizione a livello globale tra jihad e mc-world, tra terrorismo e guerra globale-preventiva. 5

La nozione essenzialista di “cultura”, elaborata da alcuni sostenitori di un relativismo radicale, intesa come tradizione e rigida continuità con un passato condiviso e sacralizzato da un gruppo, rischia di supportare un’immagine divisionista della cultura che rappresenti l’umanità come un mosaico di pezzi differenti e separati e tra di loro largamente non-comunicanti, lasciando spazio al risorgere di integralismi e fondamentalismi identitari ed ignorando gli elementi fecondi della relazione, della contaminazione, del metissaggio e dell’ibridazione, i quali hanno da sempre contrassegnato i momenti più creativi e vitali di ogni civiltà. Come afferma Edward Said nella sua prosa appassionata che non dimentica le potenzialità politiche dell’analisi intellettuale:

[…] non è esagerato dire che la liberazione come missione intellettuale, nata dalla resistenza e dall’opposizione alle costrizioni e ai saccheggi dell’imperialismo, è passata da una dinamica prefissata, codificata e addomesticata alla cultura, a un tipo di energia liberatoria, senza patria, decentrata, espressione dell’esilio. L’incarnazione di questa forma di energia è data oggi dalla figura del migrante, la cui coscienza è rappresentata dall’intellettuale e dall’artista in esilio; ovvero da una figura politica che si colloca tra più territori, tra più forme, tra più case, tra più lingue. Allora sì, in questa prospettiva, tutte le cose veramente si rispondono, originali, rare e strane.6

A partire dagli anni ’60-’70, ed in modo ancor più decisivo nei due decenni successivi, la crisi dei paradigmi epistemologici occidentali dominanti nelle scienze sociali è stata affiancata da un “secondo momento” della riflessione post-coloniale che, in seguito alle delusioni causate dai fallimenti e dalle involuzioni autoritarie delle “indipendenze” con la complicità del neo-colonialismo liberista, insieme ad una sempre più evidente dimensione di erranza e diaspora globale, non solo di persone, ma anche di immagini, forme di rappresentazione, modelli di pensiero ecc., abbandona una rigida contrapposizione nei confronti dell’Occidente e gli eccessi di talune posizioni essenzialiste espresse da movimenti culturali e politici come la “négritude” ( evidenti in particolar modo in alcune rivendicazioni di Léopold Sédar Senghor di una “essenza africana”) per spostarsi verso posizioni che privilegiano il metissaggio, la re-invenzione creativa, politica e militante delle diversità, riconoscendo il potenziale sovversivo dell’ibridazione, delle contaminazioni identitarie connesse all’attraversamento dei confini e delle frontiere, di un posizionamento marginale vissuto, come ci suggerisce bell hooks 7, come un sito di resistenza e di creazione di pratiche culturali contro-egemoniche. Nell’ambito dei cosiddetti post-colonial studies nascono e si sviluppano rapidamente una serie di riflessioni teoriche orientate all’apertura di un “terzo spazio” (Homi K. Bhabha) o, per utilizzare una metafora dello scrittore brasiliano Guimaraes Rosa, di una “terza sponda del fiume”. Si tratta di una serie di prospettive teorico-politiche che si muovono in una direzione altra rispetto agli estremismi etnocentrici del relativismo e dell’universalismo. Utilizzando ancora un concetto dell’intellettuale indiano Homi Bhabha potremmo definire questo spazio liminale e di attraversamento come “hybridity” o “in-between space” oppure, con un concetto analogo formulato dallo scrittore martinicano Édouard Glissant, “creolizzazione”.

Tralasciando per un attimo questi concetti, che discuteremo in seguito, ritorniamo ai nostri “sopravvissuti”, ai personaggi del romanzo di Rushdie che si ritrovano adesso a fare i conti con un mondo alieno nel quale sono stati catapultati ad una velocità folle e allucinante. Qual è la loro condizione? Sono davvero soltanto dei sopravvissuti? Possono definirsi solo in termini negativi di perdita e di smarrimento di un’identità precedente? Oppure c’è qualcosa di più? In un altro suo testo, una raccolta di saggi dal titolo affascinante, Immaginary Homelands, Rushdie definisce in questi termini la propria condizione di dépaysement:

Forse gli scrittori nella mia stessa situazione, esuli o emigrati o espatriati, sono perseguitati dallo stesso senso di perdita, da un forte desiderio di riappropriazione, di guardare indietro, anche a costo di venir tramutati in colonne di sale. Ma se guardiamo indietro dobbiamo farlo sapendo – e ciò genera incertezze profonde – che la nostra alienazione fisica dall’India significa quasi inevitabilmente non esser in grado di recuperare le cose che abbiamo perduto, e che, in breve, creeremo delle “fictions” al posto delle vere città o paesi, “fictions invisibili”, patrie immaginarie, “Indie della mente”.8

I personaggi di Rushdie, nel loro precipitare tra due mondi, uno perduto, ma custodito nel loro “cuore indiano” e nelle “fictions” della memoria, uno ignoto dove dovranno ri-costruisrsi, metamorfizzarsi e tra-dursi, rappresentano perfettamente le dinamiche del soggetto post-coloniale e migrante, quel suo trovarsi “nel mezzo”, in uno spazio privo di appartenenze definite, che Homi Bhabha ritiene “teoricamente innovativo” e “politicamente essenziale” e che definisce “in-between space”. Egli, coniugando sempre il daimon della teoria con l’agency politica (caratteristica che, come vedremo, è pertinente ai migliori teorici e critici post-coloniali) interpreta questo vivere attraverso il confine come un’“arte del presente” che mette in atto una potenzialità molteplice e differenziata di alternative e forme di resistenza nei confronti di quell’essenzialismo identitario che caratterizza le politiche nazionaliste e il discorso coloniale. Gli interrogativi “poetici” di Rushdie si intrecciano così a quelli “teorici” posti da Bhabha, sin dall’introduzione al suo ormai celebre The Location of Culture:

Teoricamente innovativo, e politicamente essenziale, è il bisogno di pensare al di là delle tradizionali narrazioni relative a soggettività originarie e aurorali, focalizzandosi invece su quei momenti o processi che si producono negli interstizi, nell’articolarsi delle differenze culturali. Questi spazi “inter-medi” (in-between spaces) costituiscono il terreno per l’elaborazione di strategie del sé – come singoli o gruppo – che danno il via a nuovi segni di identità e luoghi innovativi in cui sviluppare la collaborazione e la contestazione nell’atto stesso in cui si definisce l’idea di società.

E’ negli interstizi – emersi dal sovrapporsi e dal succedersi delle differenze – che vengono negoziate le esperienze intersoggettive e collettive di appartenenza ad una nazione, di interesse della comunità e di valore culturale.9

L’analisi di Bhabha, e di gran parte della critica post-coloniale, traccia una visione dell’identità liminale, ibrida e composita che, ponendosi ai margini delle grandi narrative essenzialiste della nazione e dell’imperialismo etnocentrico, ed attraversandoli in continuazione, ne destituisce le stesse fondamenta discorsive e politiche. Riferendosi ad un’installazione dell’artista afro-americana Renée Green, egli utilizza la metafora architettonica della “tromba delle scale” come luogo interstiziale e di collegamento/transito tra alto e basso, paradiso e inferno, Bianco e Nero, gruppi dominanti e subalterni, come spazio di interazione simbolica e di movimento spazio/temporale tra due estremi che impedisce a quegli stessi estremi di fissarsi in “poli primordiali”. Bhabha sostiene che “il passaggio interstiziale fra identificazioni fisse apre la possibilità di un’ibridità culturale che accetta la differenza senza una gerarchia accolta o imposta”.10

In questo spazio liminale e di transito attraverso i confini di identità stabili si produce perciò una dinamica ambivalente di “traduzione”, dove alla perdita si affianca qualcos’altro, un atto ri-creativo, un nuovo nascere di soggettività destabilizzanti. Ritornando a Rushdie e ai suoi personaggi che si metamorfizzano nella caduta, in questo spazio aereo “inter-medio”, letteralmente tra due mondi, l’atto magico del volare cantando che permette loro di sopravvivere rappresenta questa forma di traduzione, che egli definisce altrove in questi termini:

La parola traduzione deriva, etimologicamente, dal latino “portare di là”. Poiché noi siamo persone portate di là dal mondo, siamo individui tradotti. Si ritiene solitamente che qualcosa dell’originale si perda in una traduzione; insisto sul fatto che si possa guadagnare qualcosa.11

La migrazione […] ci offre una delle più ricche metafore del nostro tempo. Lo stesso termine, metafora, le cui radici risalgono al termine greco per trasportare, descrive una sorta di migrazione, la migrazione delle idee in immagini. I migranti – individui trasportati – sono esseri metaforici nella loro stessa essenza; e la migrazione, vista come metafora, è dappertutto intorno a noi – tutti attraversiamo delle frontiere; in questo senso, tutti siamo emigranti. 12

In questa accezione il termine traduzione, andando ben oltre il contesto linguistico-letterario nel quale è solitamente impiegato, diventa sinonimo di transculturazione, ossia del “processo di negoziazione e selezione interculturale”13 che consente di trasportare da un luogo all’altro non solo parole, ma anche concetti, idee, costumi, religioni, immagini e simboli, proprio come avviene a Farishta e Chamcha mentre precipitano verso la Manica. I post-colonial studies si collocano in questa prospettiva “irrequieta e revisionista”, cercando di “trasformare il presente in un luogo espanso ed ec-centrico di esperienza e potenziamento”. Alla critica epistemologica si unisce quindi una forte valenza politica la quale, per essere attuata, deve spingere la teoria oltre la semplice costruzione di una nuova ontologia del presente e di una “logica culturale del tardo capitalismo”14, dirigendosi verso più concrete locations che mettano in atto queste “altre storie, voci dissonanti e persino antagoniste – delle donne, dei colonizzati, dei gruppi minoritari, di chi appartiene a gruppi sessuali protetti”. Miguel Mellino, nel suo recente La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies15, ha messo chiaramente in evidenza il limite e il rischio, presente in buona parte di questo orientamento teorico-critico, di allontanarsi troppo dalle realtà sociali per rifugiarsi in astratti principi teorici, lasciando che la valenza ontologica si imponga su quella epistemologica, finendo per opporre ad una filosofia del soggetto, quella dell’umanesimo metafisico moderno, un’altra, quella dell’antiumanesimo postmoderno. Anche l’antropologo James Clifford mette ben in guardia da questa “deriva astratta”, quando afferma che:

[…] nulla autorizza a pensare che le pratiche di ibridazione siano sempre liberatorie o che l’adoperarsi ad articolare un’identità autonoma o una cultura nazionale sia sempre reazionario. La politica dell’ibridismo ha carattere congiunturale e non può venir dedotta da principi teoretici. Il più delle volte, ciò che conta politicamente è chi mette in scena la nazionalità o la transnazionalità, l’autenticità o l’ibridismo, e contro chi lo fa, con quale potere relativo e capacità di sostenere un’egemonia. 16

Quello che più ci interessa quindi nella condizione postcoloniale è la sua capacità di “infiltrarsi” tra le pieghe dei rapporti neo-coloniali che si sono riprodotti nel nuovo ordine mondiale e con la divisione del lavoro su scala plurinazionale. Questa prospettiva, evidenziando le storie di sfruttamento e le strategie di resistenza, permette di scrivere molteplici contro-storie della modernità, condizionando la modernità stessa, introducendo discontinuità ed antagonismi e resistendo alle sue tecnologie oppressive e assimilazioniste. Il potenziale di ibridità culturale insito nella condizione di frontiera/soglia che caratterizza l’émigré inoltre può tradurre e riscrivere l’immaginario sociale della metropoli e della modernità capitalista, introducendovi nuove strutture e nuove pratiche di significazione e di azione. Homi Bhabha utilizza il termine “unhomeliness”, che si potrebbe tradurre come “estraneità al domestico”, per definire questa frattura nell’identità che non permette più di auto-concepirsi in modo unitario e puro e di rimuovere o reprimere la componente di alterità che è presente in ogni discorso sul noi. La responsabilità politica del critico post-coloniale sarebbe quindi quella di “tentare di dar conto in modo esaustivo, assumendosene la responsabilità, dei passati non nominati e non rappresentati che infestano il presente storico”17. Emerge quindi una visione performativa della politica che non è più vista come pratica pedagogica e ideologica, ma piuttosto come “necessità impellente della vita quotidiana”18, come capacità del soggetto di fare emergere quella dimensione di “estraneità al domestico” cui si è accennato.

Precipitando nel presente, dunque, in questa condizione di spaesamento e di incertezza dovuta all’assenza di un’identità definibile, cercheremo di delineare alcuni concetti e prospettive enunciate dalla critica postcoloniale e dall’antropologia culturale degli ultimi anni, quella che segue la cosiddetta “svolta epistemologica”. A partire da uno dei testi fondatori degli studi postcoloniali, The Empire Writes Back19 (il titolo è tratto da un’espressione dello stesso Rushdie), la letteratura postcoloniale si è configurata come “scenografia della rottura”, ossia come messa in scena, di fronte e contro l’Occidente, di tattiche discorsive che, pur prendendo in prestito il linguaggio e le forme di rappresentazione occidentali come il romanzo, le destrutturano e le disseminano. Seguiremo alcune di queste tracce, mantenendo la consapevolezza che è solo applicando i concetti teorici della critica postcoloniale ad un contesto specifico, una location appunto, che possiamo misurarne la valenza performativa e politica. Alla base di gran parte dei fenomeni “tragici”della nostra epoca, come il genocidio in Rwanda nel 1994, c’è un discorso identitario di tipo essenzialista, costruito a partire dall’epoca coloniale ed ulteriormente rafforzato dalle dinamiche politiche, economiche e culturali neo-coloniali, che ha rappresentato, malauguratamente, un vero e proprio paradigma dei conflitti e delle tensioni “etniche” che si stanno producendo in varie regioni del pianeta, spesso generati dalla “frizione” tra nostalgie tradizionaliste di “purezza” e i devastanti e rapidissimi mutamenti introdotti dalle dinamiche di de-territorializzazione e di ri-territorializzazione legate al capitale transnazionale. Il Terzo Spazio configurato dai teorici post-coloniali potrebbe costituire una “via di fuga” da questo mortale dualismo, delineando al tempo stesso strategie di resistenza orientate al cosmopolitismo e alla relazione interculturale. Non possiamo però cadere nella pericolosa illusione di considerare questi concetti come delle “soluzioni”. L’ibridità, il metissaggio, la creolizzazione, la relazione sono piuttosto l’orizzonte, la soglia, il limen lungo il quale è possibile progettare nuovi e alternativi futuri. Sta a noi, quindi, percorrere i sentieri di questo presente “senza casa” e tracciare percorsi, voci e canzoni mai udite in lingue finora sconosciute.

Cominciamo dunque il nostro percorso dal binomio identità/cultura introdotto in precedenza, prendendo le mosse da alcune definizioni. Premettiamo quindi che il nostro discorso si articolerà soprattutto nei termini di una decostruzione dell’“autoevidenza” di questi stessi concetti e soprattutto delle visioni sostanzialiste ed essenzialiste che vedono nell’identità e nella cultura delle “essenze originarie”, occultandone la dimensione di flusso, di cambiamento, di relazione ed i processi di costruzione e di invenzione che ne sono invece alla base e che ne caratterizzano le dinamiche processuali. Focalizzeremo perciò la nostra attenzione sulle dinamiche politiche delle identità, ossia sui complessi rapporti di forza che interagiscono all’interno di un continuum socioculturale inducendo gli attori sociali, appartenenti a gruppi dominanti o subalterni, a riconoscersi in determinate identità, cioè a creare, modellare e utilizzare categorie come “tradizione”, “etnicità” e “cultura” per perseguire determinati obbiettivi politici.

Prendiamo spunto, per avviare quest’analisi che presenta complesse sfaccettature, da un’immagine molto semplice, utilizzata dall’antropologo Marco Aime in un suo recente studio: Eccessi di culture20. Egli vi denuncia, per mezzo di un’analisi alquanto articolata ed originale, l’eccessiva enfasi che si ripresenta in continuazione nel discorso pubblico (societal discourse) attorno alla/e cultura/e e alle loro presunte “radici”, stimolando così una crescente attenzione nei confronti del “locale” e dei “localismi” che vengono altrettanto spesso impugnati per veicolare, dietro la maschera dei “conflitti culturali”, ben altri interessi, aspirazioni politiche e tensioni tra gruppi dominanti e subalterni. In effetti la dimensione della definizione dell’identità di un gruppo si presenta come qualcosa di assolutamente problematico e molto spesso ambiguamente condizionato da svariate dinamiche sociali. “E’ come voler fotografare”, afferma Aime, “una classe di bambini che non stanno mai fermi, che si scambiano continuamente di posto. E magari a scattare la foto è un fotografo anch’egli inquieto ed in continuo movimento”.21 Quest’immagine si presta di fatto particolarmente bene ad evidenziare quanto c’è di aleatorio nella definizione di una qualsiasi “identità culturale”, nel voler fissare in una “struttura rigida” qualcosa che è invece oltremodo dinamico e fluido. I bambini che compongono una classe sono infatti soggetti estremamente eterogenei, maschi e femmine, taluni di età differente, provenienti da differenti contesti familiari, di diverse regioni e paesi. Come capita sempre più spesso, differente sarà la loro provenienza e la loro lingua madre. Inoltre, nel corso dell’anno, si instaureranno complessi rapporti di amicizia, alleanze, inimicizie, litigi ecc. Nel corso dell’anno qualcuno se ne andrà, qualche nuovo alunno verrà inserito. Ogni bambino farà esperienze diverse in ambito extrascolastico e familiare che cercherà poi, in modo estremamente differenziato e conflittuale, di integrare (o non integrare) nel contesto scolastico. Alla fine dell’anno ognuno proseguirà per la sua strada. Tanto più la foto di quei bambini irrequieti risulterà mossa e dai contorni confusi, quanto più per giunta sarà fedele alla nozione di identità “turbolenta” espressa da quella classe. A quest’immagine Aime fa seguire un’importante considerazione che, come vedremo, risulta centrale per il discorso sull’identità:

Il problema dell’identità ci pone inevitabilmente una domanda: esiste un momento in cui essa si forma? Se così fosse dovremmo allora risalire all’origine dell’identità. E’ davvero possibile? Nella maggior parte dei casi non lo è, anche se è evidentemente possibile inventare tale momento. 22

L’invenzione dell’origine e la rielaborazione performativa di un vissuto storico in relazione ed in funzione a determinate esigenze espresse da un gruppo nel “presente” risultano dunque momenti fondamentali nella costruzione sociale dell’identità. Per meglio definire la complessa articolazione delle categorie di identità e cultura introdotte all’inizio di questo paragrafo, consideriamo due prospettive di analisi particolarmente interessanti e, per certi aspetti, convergenti: quella di Wim van Binsbergen e quella di Francesco Remotti.

In occasione dell’inaugurazione della cattedra di Filosofia Interculturale presso la facoltà di Filosofia dell’Erasmus Universiteit di Rotterdam, nel 2001, Wim van Binsbergen tenne un discorso inaugurale dal titolo provocatorio: Le culture non esistono. Critica dell’autoevidenza negli studi interculturali.23 La sua lettura rimette in discussione quella che lui stesso definisce “autoevidenza” (self-evidence) del concetto di “cultura”, impiegato ampiamente, oltre che nel linguaggio quotidiano e nel dibattito pubblico degli ultimi anni, nell’ambito delle scienze umane - dalla filosofia all’antropologia, dalla critica letteraria alla stessa intercultura - e che queste discipline danno per scontato, utilizzandolo senza un adeguato vaglio critico che ne metterebbe in evidenza alcune infondatezze, sia sul piano teorico-epistemologico, sia su quello più pratico delle dinamiche di relazione e di produzione dei significati sociali. In particolare l’approccio interculturale, presentandosi come sguardo trasversale sulle dinamiche di interrelazione, scambio e reciproca influenza tra culture differenti, rischia di dare per scontata l’esistenza stessa delle culture.

Secondo van Binsbergen, il concetto di “cultura”, a partire dal XVIII secolo, ha assunto nelle accademie e nel linguaggio comune delle società nord-atlantiche una tale “autoevidenza” da diventare quasi trascendentale, al pari delle categorie “innate” di spazio, tempo, causalità e sostanza della tradizione filosofica aristotelico-kantiana. A proposito di questo determinismo culturale egli sostiene che:

Nel momento in cui la società in genere fa propria una tale visione, si giunge a pretendere che il concetto di "cultura" comporti istanze di totalità, di unicità, di integrità [integration], di delimitazione e di non performatività. Secondo questa concezione, un essere umano in ogni istante della sua vita è caratterizzato non da una pluralità di “orientamenti culturali” che interagiscono e coesistono contemporaneamente, ma solo da una “cultura”: in questa “cultura” egli vive la sua intera vita come se non avesse opzioni, come se le distinte caratteristiche, che lo individuano in quanto appartenente a quella cultura, nel manifestarle, non fossero condizionate da una certa “ostentatezza” e da un calcolo strategico degli effetti sul suo ambiente sociale –caratteristiche, cioè, non condizionate da performatività. 24
[Van Binsbergen]


In altre parole, la cultura viene concepita come un qualcosa di unitario, un’essenza, rappresentata come un attributo della personalità individuale, cui il pensiero occidentale, soprattutto di matrice razionalista e liberale-utilitarista, conferisce solitamente caratteristiche di integrità e di completezza. Si tratta, come abbiamo anticipato sopra, di una visione olistica della cultura, che si imporrebbe “naturalmente” (fin dalla nascita) all’individuo come totalità, spingendolo a forme di intolleranza nei confronti del manifestarsi della diversità nel tessuto delle relazioni sociali. Questo concetto unitario di cultura implica inoltre il presupposto secondo cui essa, in quanto “particolare”, può, e deve, essere denotata attraverso un etnonimico: cultura “italiana”, “olandese”, “cinese”, “padana”, dei Nuer, degli Zulu, dei Dogon ecc. Una visione, insomma, che vede nelle culture delle “totalità confinate ed integrate”, visione che va ben oltre il semplice piano analitico-descrittivo, ma che diventa oggetto di rivendicazioni etiche e politiche, quali il “rispetto delle culture” o il fatale ed originario legame tra cultura e territorio. Questa concezione della cultura implica quindi un nesso molto forte con l’identità individuale, coinvolgendo interamente l’individuo del quale essa costituisce l’essenza più profonda. Ma la stessa “rivendicazione” del rispetto della cultura rivela - potremmo dirlo prendendo in prestito un’espressione da Edward Said - in “contrappunto”, la sua stessa illusorietà e soprattutto il suo carattere performativo. Quando l’individuo cerca di “esortare gli altri a rispettare la sua cultura […] egli stesso”, afferma van Binsbergen, “prende una distanza dalla sua esistenza culturale, oggettivandola e rendendola un argomento di conversazione” 25. Proprio questa distanza ha l’effetto di rendere consapevoli della alterità culturale ed etnica dell’altro e quindi della natura contingente ed accidentale della propria identità. Si rende evidente, a questo punto, uno degli elementi fondamentali che emergono dall’osservazione delle dinamiche identitarie: qualsiasi identità può costruirsi soltanto in relazione con un’alterità, la quale funziona come una sorta di “specchio” che induce una forma di auto-consapevolezza della nostra stessa alterità.
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note dell'autore

1 Salman Rushdie, I versi satanici, Milano, Mondatori, 1989, p. 12; tit. or.: The Satanic Verses , London, Viking, 1988.

2 Ibid., p. 13.

3 Ibid., p. 18.

4 Ci riferiamo ovviamente allo studio di Samuel Huntington, celebre tanto tra i suoi detrattori e critici che tra i suoi sostenitori, che ha dato il via, negli ultimi anni, ad un intenso ed ormai un po’ esausto dibattito: The Clash of Civilizations and the remake of World Order, New York, Simon and Shuster; trad. it, Lo scontro delle civiltà, Milano, Garzanti, 1996.

5 R.B. Barber, Guerra santa contro McMondo, Parma, Pratiche, 1998.

6 Edward Said, Cultura e Imperialismo, Roma, Gamberetti Editrice, 1998; tit. or. Culture and Imperialism, New York, Alfred A. Knopf, 1993.

7 bell hooks, Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Milano, Feltrinelli “Campi del sapere”, 1998.

8 Salman Rushdie, Immaginary Homelands, London, Granta Books, 1991, p. 10.

9 Homi Bhabha, I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001, p. 12; tit. or.: The Location of Culture, New York, Routledge, 1994.

10 Ibid., p. 15.

11 S. Rushdie, op. cit., p. 17; nostri i corsivi.

12 Ibid., p. 278.

13 Ania Loomba, Colonialism/Postcolonialism, Routledge, London-New York, 1998, p. 68; trad. it., Colonialismo/postcolonialismo, Roma, Meltemi, 2000.

14 Fredric Jameson, Postmodernism or the CulturalLogic of Late Capitalism, London, Verso; trad. it. Il Postmodernismo o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano, Garzanti, 1989.

15 Miguel Mellino, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies, Roma, Meltemi, 2005.

16 James Clifford, Roots. Travel and Traslation in the Late Twentieth Century, Cambridge, Harvard University Press, 1997; trad. it., Strade. Viaggio e traduzione alla fine del XX secolo, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 20; nostri i corsivi.

17 H. Bhabha, op. cit., p. 26.

18 Ibid., p. 29.

19 Ashcroft, B., Griffiths, G., Tiffin, H., The Empire Writes Back: Theory and Practice in Postcolonial Literatures, London, Routledge, 1989.

20 Marco Aime, Eccessi di culture, Torino, Einaudi, 2004.

21 Ibid., pp. 44-45.

22 Ibid., p. 45; nostro il corsivo.

23 In Miltemburg A.F.M. (a cura di), Incontri di sguardi: Saperi e pratiche dell’intercultura, Padova, Unipress/Master in Studi Interculturali, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Padova, pp. 5-51.

24 W. van Binsbergen, op. cit., p. 6.

25 Ibid., p. 8.

26 Ibid., p. 9.


[....] continua


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©  Alessandro Corio

 

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