martedì 19 ottobre 2010

"Nessuno mi vedrà piangere" di Cristina Rivera Garza

Francesca Lazzarato -


il manifesto del 18 Maggio 2008


Nessuno mi vedrà piangere
Ed. Voland 2008
Trad. raul schenardi







Dal Messico scatti di interni nei luoghi tenebrosi del controllo

Sullo sfondo dell'immenso manicomio della Castañeda, voluto dal dittatore Porfirio Diaz, tragiche vicende individuali si intrecciano alla tormentata storia del paese nell'intenso romanzo di Cristina Rivera Garza «Nessuno mi vedrà piangere»



«A volte si ha la convinzione, giustissima per alcuni, che noi lettori ci avviciniamo ai libri solo per passare il tempo o divertirci, ma io mi avvicino ai libri con il desiderio di pensare insieme ad altri. I libri che mi hanno commosso, che hanno segnato la mia vita, sono quelli che mi fanno pensare, nel senso più ampio del termine (...), pensare nel senso di perdersi; pensare nel senso di camminare per una stanza fino a trovare la finestra o a creare una porta».

Così la messicana Cristina Rivera Garza, una delle più interessanti scrittrici latinoamericane degli ultimi anni, parla in un'intervista del suo rapporto con la lettura, che ci aiuta a «costruire un universo insieme a qualcun altro». Ma, tra cattedrali del mare e topi divoratori di carta stampata, esistono ancora libri che fanno pensare, libri capaci di lasciare tracce profonde e di cambiarci la vita?
Tassonomia della devianza

Certo che esistono, anche se bisogna cercarseli con pazienza, dribblando le classifiche, evitando le muraglie di best seller erette all'ingresso delle librerie, ignorando la compagnia di giro che frequenta i talk show. E in questo modo, magari , si finisce per incappare in un romanzo come Nessuno mi vedrà piangere (Voland, pp. 243, euro 14), che proprio Cristina Rivera Garza ha pubblicato nel 1999 e che ora esce in italiano, ottimamente tradotto da Raul Schenardi, per accompagnarci in un viaggio straordinario attraverso la vita, i pensieri e i dolori di due personaggi difficili da dimenticare, il fotografo morfinomane Joaquín Bitrago e la ex prostituta Matilda Burgos, destinati a incontrarsi in due luoghi diversamente consacrati all'esclusione, ossia il manicomio e il bordello.

Scrittrice raffinatissima e intensa che prima di affrontare il romanzo si è dedicata al racconto e alla poesia, la Rivera Garza è nata nel 1964 e, laureata in storia, ha insegnato in diverse università, sia in Messico che negli Stati Uniti. La sua formazione di storica e soprattutto il grande lavoro di ricerca che ha compiuto negli archivi dell'antico e immenso Manicomio General de la Castañeda (voluto dal dittatore Porfirio Diaz, che lo fece costruire a tempo di record da un suo figlio ingegnere) hanno contribuito in modo determinante alle costruzione di un romanzo vasto, tenebroso e labirintico come il complesso di edifici in cui a partire dal 1910 venniro accolti «malati mentali di ogni età e sesso».

Le vicende di Joaquín e di Matilda si intrecciano infatti con quelle del loro paese, il Messico, che tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX si preparava a entrare nella modernità attraverso la lenta sostituzione del neofeudalesimo da parte della borghesia. Un processo che fece esplodere enormi contraddizioni e finì per consegnare l'esercizio del potere a una nuova classe di privilegiati, non senza scatenare rivolte sanguinose e imporre nuove forme di esclusione che passavano anche attraverso il controllo e la neutralizzazione di corpi e menti ribelli, imprigionati e catalogati secondo una tassonomia della devianza capace di accomunare anarchici e puttane, bambini di strada e vecchi abbandonati dalla famiglia, alcolizzati e drogati.

È alla Castañeda che Joaquín, figlio diseredato di una ricca famiglia borghese, fotografa i pazienti perché le loro immagini possano lombrosianamente illustrare i fascicoli in cui vengono descritti sindromi e cure, crisi e progressi. Ed è là che rivede Matilda, della quale ha fotografato molti anni prima la conturbante nudità, esibita nel più elegante bordello della capitale.

A partire da quel momento e dalla domanda ironica della donna («Come si diventa fotografi di matti?») cui corrisponde quella crudele di Joaquín («Come si diventa matti?») le loro storie cominceranno a sfiorarsi attraverso una lunga serie di flash back. Alle illusioni e passioni di Joaquín, il cui sguardo è costantemente filtrato dall'obiettivo e nelle cui vene scorre più morfina che sangue, si affianca il racconto dell'infanzia miserabile di Matilda impregnata dall'odore dei baccelli di vaniglia, il suo amore per un'anarchica militante di nome Diamantina che è stata anche la prima amante del giovane fotografo, e infine il suo passaggio da un bordello a un altro, fino all'approdo nel luogo dove la definiranno una «malata docile, che parla molto».

Così, accostando pazientemente «piccoli, particolari momenti, eventi visibili e oggetti immersi nell'evento totale della storia», Cristina Rivera Garza riesce a raccontarci storie individuali che finiscono per comporne una assai più vasta e universale. Perché solo del Messico ci parla questo romanzo che usa una lingua perfetta e musicale organizzata intorno a immagini bagnate di luce, nitide e rivelatrici come quelle che Joaquín sa restituire attraverso la macchina fotografica.

L'espulsione dei «disturbanti»

Al di là della Storia e delle storie, Nessuno mi vedrà piangere ci parla infatti dell'intollerabile scandalo rappresentato dalla differenza, da qualsiasi tipo di differenza, in seno a una società che fa del controllo e dell'omologazione la sua prima legge, che non ammette diversità di pensiero e di linguaggio (il cozzare costante tra le parole della medicina e quelle della follia, perpetuamente sopraffatte, è superbamente descritto), che separa ed espelle i corpi «disturbanti» dei poveri, dei matti, delle donne, dei vagabondi e, non potendoli cancellare in altro modo, li dichiara malati, pericolosi, perversi.

Mescolando documenti e finzione, convertendo la ricerca d'archivio in racconto, attraversando territori difficili quanto misteriosi, permettendoci a ogni passo di «pensare» ed esibendo una eccezionale capacità fabulatoria, Cristina Rivera Garza ha scritto uno dei più bei romanzi latinoamericani degli ultimi dieci anni. E la sua bravura è oggi confermata da La muerte me da, il suo quarto romanzo appena pubblicato da Tusquets e strutturato come un thriller che lascia senza fiato e nel quale, si è detto «neppure chi legge è innocente».

In esso la società contemporanea si misura con la violenza spaventosa della cronaca, destinata a reiterare il delitto ogni volta che torna a raccontarlo e a violare ancora e ancora corpi già mille volte violati, in questo caso quelli di giovani uomini castrati e uccisi, accanto ai quali l'assassino lascia un biglietto con i versi di una poetessa argentina suicida, Alejandra Pizarnik. E anche questa mirabile esplorazione della follia e della morte, del corpo offeso, del linguaggio che lo definisce e dello sguardo che si posa su di esso per negarlo è destinata senza il minimo dubbio a stregare il lettore in modo irreparabile.



Il manifesto  18 Maggio 2008
© Francesca Lazzarato


 In una intervista la scrittrice parlando della sua vita ha detto:
E'..... una storia di sradicamento tanto esistenziale quanto intellettuale, di punti-di-fuga cercati, di stare-nel-fuori-luogo, di una appagante ( ma anche sofferta e a volte violenta e violentata)  autonomía,  che mi piace molto, con cui  mi identifico profondamente e che non voglio lasciarmi sfuggire. per essere onesti, con frequenza arrivo alla conclusione che io non appartengo nemmeno a me stessa. Così stanno le cose

riguardo alla scrittura:
Io non credo nelle scritture pure, nè negli autori  angelici senza aggettivi. Creo, di fatto, nelle scritture contaminate da tutto (che è sicuramente un altro modo di chiamare le scritture collidenti): classe sociale, nazionalità, genere, età, etnicità, geografia, da tutto il resto. Tuttavia, questo non vuol dire che io creda che la scrittura sia un atto di espressione (dell'io, della esperienza, del reale, del referente). Di fatto, sono convinta che la scrittura sia un processo di produzione (del reale soprattutto). verso questo processo (processo di scrittura come produzione) uno va con tutto ciò che sa di sè, con tutto ciò che uno crede di sapere di se, però profondamente con tutto ciò che uno non sa di se nè del mondo. Uno va verso la scrittura per disconoscere il luogo di partenza e per produrre la scoperta, come è ogni luogo (effimero) di arrivo. Il luogo di transizione come è ogni libro. In ogni caso la nazionalità, come uno di quei tanti elementi, è un luogo di partenza (il ricordo o l'invocazione di un certo paesaggio, il ritmo di una lingua, un aroma) non una definizione ne tantomeno una prigione

riguardo gli scrittori di frontiera:
Dove c'e' differenza c'e' frontiera, e questo è il concetto che mi interessa del fronterizo - il luogo ombroso, flessibile, fluido, paradossale, dove confluisce il dissimile. credo che ciò l'ho detto meglio in un post che ho pubblicato nel mio blog  No hay tal lugar  (www.cristinariveragarza.blogspot.com) un 10 ddi luglio del 2004:

"Nella vita come nella scrittura, le cose veramente interessanti succedono nelle collidenze - quegli spazi volubili dove ciò che è non smette di essere e, ciò che non è, ancora non comincia. Lungi dall'essere spazi armonici dove il distinto si intercambia, creando la possibilità di una sintesi, queste collidenze sono spazi di collisione dove, come direbbe  Slavoj Zizek  in  Organs Without Bodies. On Deleuze and Consequences si ascolta solo "l'eco dell'impatto traumatico"

Una scrittura collidente non si realizza, non può realizzarsi in un genere letterario specifico. Così come gli illegali che attraversano le frontiere fortemente vigilate, le scritture collidenti fanno emergere l'estrema porosità dei limiti stabiliti per  i cosiddetti poteri letterari. una scrittura collidente  è, in queto senso, una lettura (in quanto pratica interpretativa) politica del reale
La produzione di linee di fuga, che sono in realtà dei buchi  dove si perde il significato originario delle cose, avviene attraverso l'utilizzo di elementi propri di un genere all'interno della struttura o essenza di un altro genere - un utilizzo (che è una forma di agenzia sociale e culturale) certamente tergiversato e per necessità ludico, vale a dire, critico. C'e' una collidenza, per esempio, quando un verso si iscrive all'interno della struttura di un romanzo o quando un paragrafo gioca funzioni importanti all'interno di una poesia, però sempre e solo finchè la prima non si trasforma in una prosa poetica e la seconda in una poesia narrativa. C'e' una collidenza dunque, mentre si sente l'eco di questo "impatto traumatico" la cui mera esistenza è  un segnale che la risoluzione o sintesi redentrice, il nuovo ordine, la nuova riorganizzazione del territorio e dei suoi sistemi di vigilanza non è ancora giunta

Le  scritture collidenti sono l'osteoporosi di uno scheletro letterario a cui manca il calcio. In un gioco di identificazioni successive sarebbe necessario ammettere che la cosa più interessante (e la cosa più interessante è sempre più decisiva della cosa più corretta o più vera) della poesia succede nella narrativa. La cosa più interessante della narrativa succede nella poesia. La cosa più interessante, insomma, come si sa è sempre l'altro.
Una scrittura collidente vacillerà come ha detto una volta kafka con la maggiore forza possibile. Dice Deleuze:  bisogna scrivere in una forma liquida o gassosa, precisamente perchè la percezione normale e l'opinione ordinaria sono solide, geometriche.   
Uno scheletro pluviale. Una struttura  arenosa. Una osteoporosi. Una malattia. Una fuga permanente. Una forma di non stare  

Credo che tutto questo vuol dire che, della frontiera, ciò che mi sembra più interessante è l'incrocio, l'incrocio prima che si trasformi in una epopea o una fonte di vittimizzazione
 

 

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