martedì 2 novembre 2010

Ancora sull’antirealtà

Giuseppe Zucco


di Giuseppe Zucco

Il dirmi che una scarica di mitra è realtà mi va bene, certo; ma io chiedo al romanzo che dietro questi due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto. Carlo Emilio Gadda
Ma è così? In letteratura esiste una divisione così netta tra finzione e realtà? Le opere letterarie possono essere annoverate senza ombra di dubbio ora tra le schiere della realtà ora tra quelle della finzione? E questa distanza certificata aiuta la comprensione delle opere letterarie? Oppure il gioco è infinitamente più sfumato? E se così fosse, non vi è forse tra realtà e finzione un reciproco scambio, un’osmosi continua quasi impercettibile? Non è più corretto affermare che le particelle dell’illusione possono rendere più completo l’atomo della realtà, e viceversa?


Eviterei di scomodare ancora Friedrich Nietzsche: ma è proprio nella Genealogia della morale che si trova l’abusatissimo e frainteso “non esistono fatti, ma solo interpretazione di fatti”, e questo non significa che la verità non esista, o che gli accadimenti non siano di volta in volta provvidenziali e/o catastrofici nel loro avverarsi – la caduta nel revisionismo dei fatti storici o nel nichilismo sarebbe altrimenti inevitabile – ma che i fatti per essere raccolti, tramandati, diffusi abbiano l’esigenza di essere messi in forma, di essere ricostruiti secondo una o molteplici linee narrative, di essere riordinati seguendo un filo logico rigorosissimo.


In questi giorni, guardando i telegiornali e i programmi televisivi, tenendo gli occhi aperti e chiusi davanti all’infinita sepoltura di Sarah Scazzi tra le agenzie Ansa e i pixel, mi è ritornato in mente un campione di scrittura “realista”, il Truman Capote di A sangue freddo – non solo perché mi è parsa subito insopportabile questa onda emotiva che solca i media intorno all’omicidio di una ragazzina esibita continuamente nei filmini familiari mentre si pettina o mangia un panino al Mc Donald, ma soprattutto perché questa emotività diffusa tutto permette tranne la comprensione dei fatti o la pietà e il distacco verso i suoi personaggi.

Truman Capote esplorò con il fiuto e la sensibilità dello scrittore un fatto di cronaca simile: indagò, raccolse tutti i documenti possibili, compilò le interviste di ogni singola comparsa sulla scena allargata del delitto, poi ci mise sei anni per dare ordine e dispiegare dentro i confini di un libro non un fatto, ma la complessità, la razionalità, la disperazione sentimentale, il mondo intero che quel fatto illuminò nel suo avverarsi. Ed è proprio l’esattezza e la precisione del libro che ci permette di “sentire” i personaggi e le loro ambizioni – sia pure la commovente e fragilissima ambizione di vivere, come si capisce leggendo degli attimi che precedettero la fine della famiglia di Holcomb, Kansas.

Eppure in un libro in tutto e per tutto realista, dove in teoria sono i fatti a piegare la letteratura e non il contrario, c’è una scena che mi torna sempre in mente quando si oppone la realtà alla finzione come fossero due entità distinte, ed è esattamente la scena dell’arrivo dei due assassini al tribunale, anche se il loro arrivo non è raccontato dal punto di vista del narratore o di un personaggio qualsiasi, ma dal punto di vista di un gatto, anzi una coppia di gatti spelacchiati, se non ricordo male. Questo toglie verosimiglianza ai fatti, alla verità dei fatti narrati? Neanche per idea: amplifica e distende piuttosto la portata veridittiva della narrazione dei fatti, come se il mondo intero, animali compresi, continuasse ad essere testimone, e quindi parte oggettiva e soggettiva, dei fatti accaduti.

Al contrario, prendiamo 2666 di Roberto Bolaño: per intenzioni, visionarietà, uso folgorante dei cliché narrativi, fluvialità della scrittura, è un libro da collocare al polo opposto di A sangue freddo. Eppure nella quarta parte del libro, La parte dei delitti, in mezzo alla trama di un romanzo dove in teoria è la letteratura e la finzione a piegare la realtà e non il contrario, emergono nella loro nerissima tragicità i referti spietati delle morti di migliaia di donne dentro e nei dintorni di Ciudad Juarez. Quegli omicidi sono in tutto e per tutto reali – da tempo avvengono ai confini del Messico senza che si riescano a scoprire gli assassini. Ma quelle pagine, oltre a dare conoscenza al lettore di un fatto così vero e così mostruoso, messe lì, nel cuore di un romanzo di finzione, finiscono per amplificare la portata dolorosa degli eventi, facendo coincidere la morte violenta di quelle donne con il male tout court, la configurazione perversa e oscura del male, che ha tanto a che vedere con la tirannia, la sopraffazione, l’inganno, le forme del capitalismo avanzato, la vita politica deviata dalla propria missione, la giustizia compromessa nei suoi fini e nei suoi funzionari.

Così mi viene da pensare che “l’antirealtà” di cui parla Tommaso Pincio non sia tanto un mondo parallelo al nostro che decidiamo di abitare immergendoci in un libro qualsiasi. Penso piuttosto che siccome il mondo in larga parte può essere ricondotto a un fatto linguistico – cioè a una serie di fatti riordinati e compresi dentro la logica e le regole di un linguaggio, sia questo il linguaggio parlato o scritto, o quello del cinema, della pittura, della scultura, dell’arte nel suo insieme, della televisione, dei new media – allora l’antirealtà siano tutti quei fatti linguistici dove decidiamo di entrare e trascorrere il nostro tempo (un romanzo, un film, un quadro, un blog) in cui il linguaggio è così finemente lavorato da permetterci la comprensione del mondo, o anche la percezione sensoriale del mondo e della realtà, o la condivisione allargata della condizione umana, o la rottura epistemologica degli stereotipi e dei luoghi comuni, o la messa a punto di un modo altarnativo di considerare gli eventi e le formule veritative, o l’immaginazione del migliore dei mondi possibili, o tutte queste cose insieme. L’antirealtà, se così la vogliamo chiamare, è il rintocco di una lingua plurale e diramata dentro l’ossessività martellante e globale della lingua del potere.

da nazione indiana 
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