domenica 2 gennaio 2011

Dialogo con José Saramago

  di Massimo rizzante 


Dialogo con José Saramago


Questo dialogo (che in realtà sono tre dialoghi avvenuti tra il 1994 e il 2004 in tre città diverse) è tratto da un'opera di dialoghi e ricordi intitolata "Avanzando verso il passato" di prossima pubblicazione. (Massimo Rizzante)


MR - Una domanda sulla sua vocazione romanzesca. La sua carriera letteraria iniziò nel 1947 con la pubblicazione di Terra do pecado. Il suo secondo romanzo, Manuale di pittura e calligrafia, uscì trent’anni dopo, nel 1976. Come mai un così lungo silenzio?

       JS - Cominciamo dalla vocazione romanzesca. Siamo nel 1947. Un ragazzo privo di studi universitari, educatosi nelle biblioteche pubbliche, scrive un romanzo. Trova miracolosamente un editore che gli consiglia di cambiare il titolo iniziale, A Viúva, ritenuto poco “commerciale”, con Terra do pecado. Il giovane scrittore, eccitato dalla prospettiva di vedere il suo libro pubblicato, accetta. Il romanzo ha il successo che merita, cioè nessuno. Il giovane scrittore allora si rimette al lavoro e scrive un altro romanzo, Clarabóia, a tutt’oggi inedito. Poi, vent’anni di silenzio, fino alla pubblicazione, nel 1966, di un libro di poesie, Le poesie possibili. Ecco la mia preistoria come scrittore. Credo sia perciò azzardato parlare di «vocazione romanzesca», tanto più che il mio primo libro di poesie osava proporsi appena come «possibile». Dovevano trascorrere ancora undici anni prima che l’autore, già molto meno giovane, trovasse la forza di confrontarsi per davvero con il romanzo. Perché un così lungo silenzio? Dopo aver scritto Clarabóia, compresi di non avere più niente d’interessante da dire. Le ragioni estetiche del successivo rifiuto del mio primo romanzo? Non si tratta di ragioni estetiche, ma semplicemente del fatto che Terra do pecado era stato scritto da un’altra persona, una sorta d’altro io fossilizzato nel tempo. Se alla fine ritornai al romanzo, fu grazie alla poesia che andavo scrivendo: riflessiva, concettuale, a volte descrittiva.

      
MR - Il protagonista di Manuale di pittura e calligrafia abbandona – per poi farvi ritorno – la pittura e si dedica anima e corpo alla letteratura come altra forma di conoscenza. Pensa che il romanzo sia una forma d’arte e di conoscenza autonoma rispetto a tutte le altre?

     
JS - Le forme di conoscenza sono probabilmente infinite e il romanzo perciò non può esserne escluso. Ancor meno oggi, epoca nella quale vi convergono gli affluenti della poesia, del teatro, del saggio, della filosofia e della scienza, che rendono il romanzo un luogo letterario (un luogo, non un genere) in grado di esprimere una saggezza e una cosmovisione paragonabili a quelle presenti nei grandi poemi dell’Antichità.

     
MR - Esistono, a suo avviso, degli elementi essenziali perché un romanzo sia un romanzo?

     
JS - La mia opinione è che il romanzo, se vuole continuare a esistere, non deve più essere... romanzo, deve cioè aprirsi alla sua negazione. Per quanto mi riguarda, mi auguro che i miei romanzi futuri assomiglino il più possibile a dei poemi in versi in cui alla pura espansione poetica corrisponda una struttura fisicamente coerente.

     
MR - Nel suo romanzo Una terra chiamata Alentejo (Levantado do chão), pubblicato nel 1980, appare per la prima volta il suo stile, quell’originalissima scrittura orale che non abbandonerà più. Com’è giunto a questa scoperta?

     
JS - Un lettore mi ha detto una volta: «Quando leggo Una terra chiamata Alentejo mi dico: questo scrittore è diverso da tutti gli altri». Se mi domandassero di commentare le sue parole, direi che aspiro soltanto a continuare a meritarmele. Come sono giunto alla scoperta di quella che chiama «scrittura orale»? Per quanto possa sembrare paradossale, è stata lei a scoprirmi. Innanzi tutto sono profondamente convinto che questo incontro non poteva avvenire che durante la stesura di Una terra chiamata Alentejo, dove si raccontano le vicende di una famiglia di contadini, per i quali, com’è noto, la sola possibilità di comunicare è stata per secoli quella orale. Se avessi scritto un racconto urbano, borghese, la mia «scrittura orale» non sarebbe nata. Uso espressamente la parola nata. Prima che riuscissi a trovare l’inizio, infatti, il libro ha vissuto con me tre anni, durante i quali sono stato ossessionato da una domanda formale a cui non sapevo rispondere: come evitare di cadere nei modelli neorealisti che la storia stessa del mio romanzo sembrava richiedere? Senza aver raggiunto una soluzione, mi sono rassegnato a cominciare il libro. Ed ecco che, dopo aver scritto una trentina di pagine, improvvisamente, senza sapere come e perché, sono passato da una scrittura normale a un flusso verbale apparentemente senza regole, come se stessi raccontando la vita di coloro che mi avevano raccontato la loro vita. È accaduto così, in modo naturale... Stranamente, quando poi ho dovuto raccontare delle storie urbane (come ne L’anno della morte di Ricardo Reis), ho compreso che con lievi aggiustamenti questa «scrittura orale» poteva essere altrettanto efficace. Così è nato lo stile che dà unità all’insieme della mia opera.

     
MR - L’onnipresenza della «scrittura orale», attraverso l’onniscienza di un narratore-interlocutore, di un narratore imitatore di tutte le voci, non rischia forse di celare ciò che il romanzo dovrebbe al contrario rivelare: la voce dei personaggi, il loro timbro originale?

      
JS - Quel che lei definisce un rischio è in realtà un duplice obiettivo: da una parte sostituire (se possibile) la voce narrativa con la voce dell’autore, in modo che il lettore possa identificarlo in ogni momento (cosa che mi spinge a dire che tutti i miei libri dovrebbero portare una fascetta con sopra stampate le seguenti parole: «Attenzione, in questo libro c’è qualcuno»); dall’altra, in rapporto ai personaggi, rinunciare a dar loro uno “stato civile” per farne, senza offuscarne l’identità, dei portavoce dell’autore (di tutte le voci che sono in lui). Io probabilmente non scrivo dei romanzi, ma dei saggi con alcuni personaggi. Forse perché Montaigne è una delle mie letture più costanti.

      
MR - Si è mai chiesto: che rapporto c’è tra i miei romanzi e la tradizione epica del mio paese? Sono un romanziere o un narratore che perpetua la tradizione orale collettiva?

    
JS - A parte Camões e qualche cronista del XV e del XVI secolo, non si può parlare in generale di un’epica portoghese, soprattutto se, sulla scorta della sua descrizione enciclopedica, la concepiamo come un «genere letterario che racconta in uno stile elevato e seguendo un’organizzazione strutturale che gli è propria alcune azioni eroiche di personaggi storici o leggendari». La «tradizione orale collettiva» invece è tutta un’altra questione... Essa è presente nei miei romanzi, sia in certi aspetti della struttura generale, sia in alcune sue componenti particolari: il gusto per la digressione, il ricorso occasionale a un certo lessico arcaicizzante, l’uso ripetuto di espressioni idiomatiche, di proverbi, di detti ed espressioni popolari. Sono quindi un romanziere o un narratore di storie che ha sostituito la voce con la scrittura? Propendo per il narratore. Ciò nonostante, non mi disturba che si continuino a chiamare romanzi i libri in cui quelle storie sono narrate...

      
MR - Memoriale del convento (1982) racconta la costruzione, avvenuta tra il 1713 e il 1730, dell’edificio di Mafra voluto da Giovanni V, re di Portogallo. L’ambientazione, le intenzioni, l’acribia documentaristica, mi sembrano quelle di un romanzo storico. È d’accordo con questa definizione?

     
JS - Penso che il problema di sapere se un romanzo è storico o meno è privo d’importanza. Io sostengo che ogni romanzo è, per definizione, storico, e non può non esserlo. Vorrei aggiungere che poco importa che l’epoca scelta dall’autore sia il passato o il presente (con questa precisazione: il romanzo, che è sempre scritto nel suo tempo, dirà sempre di più su quest’ultimo che su quello scelto dall’autore per il suo romanzo). Quando un giorno, davanti al convento di Mafra, mi sono detto: «Vorrei mettere tutto questo in un libro», pensavo di scrivere un romanzo storico? No. Pensavo alla fatica, al sacrificio di migliaia di uomini, la maggior parte dei quali erano stati obbligati con la forza a lavorare all’opera di sua Maestà. Fu questo, e nient’altro, che mi spinse a scrivere Memoriale del convento.   

     
MR - Si può affermare allora che il romanzo è un modo di reinterpretare la Storia? E che cosa esso può dire di specifico sulla Storia?

     
JS - Il romanzo, in effetti, può essere un modo di reinterpretare la Storia, di mostrare che la Storia, molto più spesso di quanto appaia alla ragione e al senso comune, è presa troppo sul serio allorquando si presenta alla nostra ingenuità come un corso universitario. Il romanzo può dire sulla Storia ciò che essa non dice mai di se stessa: raccontare le semplici verità umane, mutevoli e comuni, occultate da una verità predefinita, come se gli avvenimenti della Storia non potessero per nessuna ragione non essere accaduti.

      
MR - Ricardo Reis, con Álvaro de Campos e Alberto Caeiro, è uno degli eteronimi più conosciuti di Fernando Pessoa. Come mai nel 1984, all’epoca della sua pubblicazione de L’anno della morte de Ricardo Reis, la scelta è caduta proprio su quel medico scettico e fatalista, «latinista per educazione e semiellenista per formazione», come lo ha definito una volta il suo creatore?

     
JS - Ricardo Reis è stato il mio primo Fernando Pessoa. L’ho letto all’età di diciotto anni e per un certo periodo ho creduto che esistesse per davvero un poeta che si chiamasse così. Solo più tardi ho appreso che Ricardo Reis era un eteronimo di Pessoa. Tuttavia, ho conservato per tutta la vita quella prima impressione di un Reis autonomo, quasi che egli appartenesse a un grado superiore di eteronimia. La relazione ambivalente che ho intrattenuto con Reis è legata a una circostanza doppiamente biografica: da una parte, il fascino per la perfetta bellezza delle sue odi classiccheggianti; dall’altra, l’irritazione nei confronti di colui che un giorno aveva scritto: «Saggio è chi si accontenta dello spettacolo del mondo». Quando l’idea del libro è nata, come al solito in modo repentino, mi è apparso allo stesso tempo il personaggio di Ricardo Reis. Non ho potuto far altro che accettare sia l’una che l’altro.

      
MR - L’anno della morte di Ricardo Reis è uno di quei romanzi in cui gli incidenti di percorso determinano il percorso stesso, com’è il caso anche de La zattera di pietra (1986) o de La storia dell’assedio di Lisbona (1989). In questi romanzi non esiste un vero e proprio intreccio, ma piuttosto un’idea-forza dalla quale discende tutto lo svolgimento del romanzo. Pensa che il semplice succedersi degli avvenimenti possa essere materia sufficiente per la costruzione di un romanzo?

     
JS - Non esiste una story. C’è un filo che si spezza e si riannoda continuamente. Tale continuità appare soltanto se leggiamo il libro dall’ultima pagina alla prima: esattamente come accade a chi da lontano riconosce le impronte dei propri passi su un terreno che nessun altro ha calpestato. Io non tesso un intreccio romanzesco (ciò conferma, una volta di più, che non sono un romanziere...). Vivo piuttosto di idee forti, che poi si dispiegano, senza per questo aver bisogno di particolari peripezie o momenti di suspense, stratagemmi grazie ai quali, per altro, sono stati scritti romanzi meravigliosi. Credo profondamente che il tempo, il semplice svolgersi del tempo, sia una materia più che sufficiente per la costruzione di un romanzo, forse ancor di più che i grandi eventi storici, la cui importanza, in un certo senso, rende prevedibili.

     
MR -   «Ho i miei dubbi che lanciare una pietra in mare possa causare la frattura di un continente». Chi parla è Joaquim Sassa, un personaggio de La zattera di pietra. L’allontanamento fisico della penisola iberica dall’Europa, che qui viene raccontato, è un fenomeno tanto apocalittico quanto magico e Sassa, con gli altri quattro protagonisti, è uno degli iniziati al viaggio immaginario alla ricerca di un uomo immaginario. Si tratta della metafora di qualcuno che non crede nell’Europa comunitaria e indica un avvenire atlantico e iberoamericano?

      
JS - Sono consapevole di aver superato in questo romanzo i limiti della verosimiglianza, ma era indispensabile... Dovevo mostrare, infatti, che i popoli della penisola iberica, aderendo esclusivamente all’opzione europea, vanno contro la loro Storia. La penisola iberica, attratta dal consumismo e dalla globalizzazione, rimuove la sua vocazione verso il Sud che non ha equivalenti in nessun altro paese europeo. Ma La zattera di pietra ammette una seconda lettura: la penisola potrebbe essere un rimorchiatore che traina l’Europa verso il Sud, strappandola alle ossessioni trionfalistiche del Nord e rendendola solidale con i popoli sfruttati del Terzo Mondo. Le utopie, forse, non sono tutte morte...

      
MR -  Ne La zattera di pietra, come in altri suoi romanzi, il fantastico si innesta sul quotidiano, il prodigio sulla tecnica, lo spirito dei morti sull’ironia disincantata dei vivi, il lirismo dei predestinati sulla prosa delle opinioni correnti. Spesso il fantastico, con tutto il suo sapere ancestrale, vince sul naturalismo fatto di cause ed effetti sempre spiegabili. Questa prerogativa è presente in molta letteratura latinoamericana. Vede un’aria di famiglia, per così dire, tra la sua opera e quella di alcuni grandi scrittori latinoamericani della sua generazione?

     
JS - Quel che lei descrive è sì una caratteristica della letteratura latinoamericana, ma non una sua prerogativa esclusiva. Attribuire tutto ciò che in letteratura è strano e misterioso (quasi tutto) alla letteratura latinoamericana, cosa che la critica europea e anglosassone fa sistematicamente, trascura un fatto importante: le origini europee, soprattutto iberiche, di gran parte della letteratura fantastica, che sono da considerarsi come un patrimonio autoctono. I racconti popolari europei (per altro tributari delle culture orientali) sono una fonte estremamente ricca per i romanzieri a corto di ispirazione... Per quanto mi riguarda, io non ho bisogno di uscire dalle frontiere del Portogallo per imbattermi in qualcosa di fantastico o di magico. Ciò, ovviamente, non vuol dire che non abbia letto e appreso da scrittori come Astúrias, Carpentier, García Marquez, Cortázar...  

     
MR - In Storia dell’assedio di Lisbona e ne Il vangelo secondo Gesù Cristo (1991) – nel primo in modo più paradigmatico che nel secondo –, ritrovo una delle sue ossessioni: la volontà di rendere simultanei gli avvenimenti del passato e del presente. Raimundo Silva, il meticoloso e prudente revisore protagonista de La storia dell’assedio di Lisbona, reinventando, grazie all’inserimento di un’insignificante particella negativa, la storia dell’assedio del 1147, reinventa se stesso e comincia finalmente a vivere. La sua possibilità esistenziale, inespressa fino a quel momento, cresce simultaneamente con le possibilità inespresse di una Storia plurisecolare. Forse i suoi romanzi desiderano esplorare soprattutto questo: non la realtà, il passato storico, il presente storico, ma l’essere radicalmente storico dell’uomo, la sua facoltà di abitare allo stesso tempo tutte le epoche. Che ne pensa?

      
JS - È così. Io parlo, e mi auguro di farlo efficacemente, dell’uomo radicalmente storico. Immagino il tempo non come una linea retta lungo la quale un punto luminoso (o privo di luce, dipende dai gusti), il presente, si muove continuamente, ma come un immenso schermo su cui si proiettano in modo caotico tutti gli avvenimenti e le vite di tutti gli esseri: si vede l’uomo di Cro-Magnon accanto a Leo nardo da Vinci, la battaglia delle Termopili vicino a Cristoforo Colombo, l’inventore della ruota accanto a Einstein... Il compito del romanziere consiste nel cercare un senso in tutto ciò. Croce scrisse una volta: «Tutta la Storia non è nient’altro che storia contemporanea». Di mio posso aggiungere soltanto questo: si tratta della più grande verità del mondo.

     
MR - La pubblicazione de Il vangelo secondo Gesù Cristo fu censurata dal governo portoghese. Nel 1993 lei decise di lasciare il Portogallo e di trasferirsi a Lanzarote, nelle Canarie. Nello stesso anno cominciò a scrivere un diario, i Quaderni di Lanzarote. Che ruolo ha giocato la redazione di queste pagine diaristiche nella sua creazione letteraria?

      
JS - Non è facile rispondere a questa domanda. Due ragioni mi hanno spinto, più o meno consapevolmente, a scrivere un diario: in primo luogo, il fatto di aver lasciato il mio paese per vivere in un’isola lontana; quindi il bisogno, che non avevo mai provato prima, di trattenere il tempo, di costringerlo, per così dire, a lasciare il più gran numero possibile di tracce del suo passaggio. I Quaderni di Lanzarote sono una lunga lettera inviata a coloro che sono rimasti dall’altra parte, ma sono anche uno strumento – vano, inutile, forse disperato – di simulare un prolungamento della vita attraverso un’ecriturazione dei giorni. Ora, i Quaderni non sono un laboratorio, benché non manchino riflessioni sul fare letterario; non sono un registro delle storie del mondo, benché vi abbondino i commenti sull’attualità; non sono una collazione di dati biografici, benché vi consegni i miei pensieri e miei atti. Come ogni diario – come ogni opera – i Quaderni sono un esercizio narcisistico, ma, al contrario di quel che si crede, Narciso non sempre ama l’immagine che lo specchio gli rimanda...

     
MR - In una città non identificata, in un paese non identificato, un’auto è ferma al semaforo. Scatta il verde. L’auto non riparte. Il conducente è in panne. È diventato improvvisamente cieco. La sua cecità è contagiosa e ben presto tutti saranno infettati dal morbo. È l’inizio di Cecità (Ensaio sobre a Cegueira, 1995). Come spesso succede nei suoi libri (penso a quel che si è detto a proposito de La zattera di pietra), gli avvenimenti prendono avvio da un’idea fortemente romanzesca. Eppure lei è piuttosto diffidente verso il romanzesco e i suoi trucchi (intreccio, suspense, peripezie, drammatizzazione). Forse per questa ragione i titoli dei suoi romanzi contengono spesso parole come ensaio, historia, manual, memorial?  

     
JS - Mi accontento del fatto che l’idea principale del mio romanzo sia, per utilizzare la sua espressione, «fortemente romanzesca». Spero che sia così «romanzesca» da ridurre, se non sopprimere, i sottoprodotti «romanzeschi» del tema portante del romanzo. Mi auguro sempre che il lettore non perda di vista i pilastri che sostengono l’edificio, l’architrave che unisce quel che sta sopra a quel che si trova sotto. La descrizione dettagliata dell’aspetto fisico dei personaggi non mi ha mai interessato. Ciò che conta per me, è che un personaggio sia in grado di muoversi in armonia con l’architettura del romanzo. Immagino che la scelta di dare ai miei romanzi dei titoli assai simili a quelli di opere didattiche venga da questo bisogno di rigore. Come le ho già detto, probabilmente non sono un romanziere, ma un saggista che, non in grado di scrivere saggi, si è rassegnato a scrivere romanzi.

     
MR - I personaggi di Cecità non hanno nome. Nel corso della narrazione, la loro assenza di stato civile le ha procurato qualche difficoltà tecnica?

      
JS - All’inizio sì. Tuttavia, non ho mai avuto la tentazione di attribuire loro dei nomi. D’altra parte, mi sembrava assurdo che la convenzione di un nome potesse sopravvivere nella situazione in cui li avevo posti. Che senso avrebbe avuto chiamare il medico Francisco o la ragazza dagli occhiali scuri Maria na? Bisogna però riconoscere che un anonimato assoluto è impossibile. La narrazione, infatti, in questo caso, si bloccherebbe, non troverebbe sbocchi. È vero che il medico non ha un nome, ma chiamarlo «medico» è già un modo di nominarlo. Si tratta dello stesso principio grazie al quale chiusa una porta e gettata la chiave, l’apriamo con un grimaldello...

     
MR - Penso che l’assenza di nomi costituisca l’origine, tanto estetica quanto etica, di Cecità. Ora, quel che nel romanzo l’autore sembra adombrare – senza mai rivelarlo – è che rivedere il mondo significa nominarlo. Ogni volta, di nuovo...

     
JS - Credo che stiamo progressivamente perdendo i nostri nomi. In Tutti i nomi, scritto dopo Cecità, malgrado quanto il titolo sembri promettere, i personaggi, ad eccezione di uno, non hanno nome. Il solo che lo possiede si chiama Signor José, perché l’insignificanza della persona (e quella del suo nome) è tale che nessuno si dà la pena di ricordare il suo patronimico... L’epigrafe del libro – estratta dal Libro delle evidenze, una delle mie invenzioni borgesiane, alla stregua del Libro dei consigli citato in Cecità – recita: «Conosci il nome che ti hanno dato, non conosci il nome che hai». A questo proposito ricordo che in Cecità la ragazza dagli occhiali scuri dice a un certo punto: «In noi c’è una cosa che non ha nome, questa cosa è quel che siamo». Il nome che portiamo, il nome che ci hanno dato, il nome che dobbiamo dare a coloro che non ne hanno uno... Sì, ha ragione, rivedere il mondo, rivedere l’uomo, significa nominarli di nuovo. 

     
MR - Solo un personaggio, la moglie del medico, non è stato contaminato dall’epidemia ed è in grado di vedere il disordine in cui è caduta l’umanità. Diventerà la guida di un piccolo gruppo di ciechi che tenteranno di dare vita di nuovo a una comunità. Nel corso del romanzo si domanda: ho il diritto di guardare gli altri quando gli altri non possono farlo? Esiste una relazione tra questa domanda e la scena in cui, entrata in una chiesa, si accorge che tutte le immagini sacre hanno gli occhi bendati?

      
JS - Non era, in ogni caso, intenzione cosciente dell’autore. L’episodio della chiesa in Cecità è legato alle ultime pagine del mio romanzo precedente, Il vangelo secondo Gesù Cristo, quando Gesù, rivolgendosi agli uomini, chiede loro di perdonare Dio perché non sa quel che fa... Ma in Cecità si va ancora più in là: si afferma che Dio non merita di vedere, si afferma che le immagini vedono soltanto attraverso gli occhi che le vedono e che è la nostra stessa cecità che ci impedisce di essere visti. Quanto alla domanda che si pone la moglie del medico, riguarda i rapporti umani: se non posso essere guardato, non ho il diritto di guardare. L’episodio può aiutare a comprendere meglio la mia idea: il ricco non ha il diritto di guardare il povero se il povero non può guardare il ricco.

      
MR - Verso la fine del romanzo, il piccolo gruppo di ciechi guidati dalla moglie del medico incontra uno scrittore che, desiderando descriverlo, tenta di sapere come hanno trascorso il periodo di quarantena. La moglie del medico gli risponde che per parlarne bisognerebbe averlo vissuto. Lo scrittore reagisce dicendo che egli, come qualsiasi altra persona, non può sapere tutto né aver vissuto tutto. Non gli rimane quindi che domandare e immaginare. È anche il suo caso?

      
JS - Gli scrittori non andrebbero molto lontano se scrivessero soltanto di quello che conoscono o che hanno vissuto. Confesso di sapere poche cose. Nella mia vita non ci sono mai stati avvenimenti così interessanti da nutrire i miei romanzi. Immaginare, più che interrogare, è la soluzione che mi resta.

     
MR - Sempre verso la fine del romanzo la moglie del medico afferma: «L’unico miracolo che possiamo fare sarà quello di continuare a vivere, difendere la fragilità della vita giorno dopo giorno, come se lei fosse cieca, e non sapesse dove andare, e forse è proprio così, forse la vita non lo sa davvero, si è abbandonata nelle nostre mani dopo averci reso intelligenti, e noi l’abbiamo portata a questo». Ecco una riflessione, fra le altre, che mostra il carattere essenzialmente ironico – nessuna verità si presenta come assoluta – del romanzo. Infatti, è sempre con l’ambiguità che il lettore deve fare i conti. Cecità e intelligenza, irrazionalità e ragione, accecamento e visione sono inestricabilmente legati. Una domanda: il lieto fine – tutti riacquistano improvvisamente la vista – non annulla forse la profonda e paradossale esperienza che i personaggi hanno fatto nel corso della loro odissea?

     
JS - Il finale di Cecità è lieto solo in apparenza. È vero che i personaggi recuperano la vista, ma le ultime parole del libro – «La città era ancora lì» – contengono una minaccia latente. Per il momento la città è «ancora» lì, cioè, può «ancora» essere vista. Il contagio, tuttavia, non è stato debellato. Dopo essersi manifestato, ha smesso temporaneamente di trasmettersi. Il paradosso perciò è intatto, l’ambivalenza non è stata risolta.            

   
MR -    L’assenza di nomi dei personaggi, come accennava, è confermata in Tutti i nomi (1997). Il protagonista – il solo che possiede un nome – si chiama Signor José ed è un impiegato della Conservatoria Generale dell’Anagrafe dove si trovano «tutti i nomi». Ciò mi ha fatto subito pensare alla nostra situazione attuale in cui a una crescente ipertrofia delle informazioni corrisponde un indebolimento progressivo dell’identità individuale. Non crede che la ricerca del nostro nome sconosciuto, quel nome che nessuno ci ha dato, come recita l’epigrafe del libro da lei prima citata, sia diventata impossibile in un’epoca come la nostra votata alla catalogazione digitale dello scibile umano?

     
JS - Non credo di sbagliarmi troppo se dico che oggi la catalogazione digitale è fatta più di cifre che di nomi. I nomi hanno il pericoloso inconveniente di ripetersi: mettono a rischio l’armonia degli archivi, rendono difficili le certificazioni, diventano ben presto labirintici, mentre i numeri sono infiniti e si dispongono tranquillamente su una linea retta e, succedendosi uno dopo l’altro e avendo il vantaggio di essere noti in anticipo, non provocano sorprese. I nomi sono sempre di più sostituiti dai numeri e dalle sigle: quel che conta sulla carta di credito non è il nome del suo possessore ma il numero che vi è impresso; l’indirizzo elettronico non è che un insieme di lettere che, benché comprensibili, non traducono necessariamente il nome dell’utente. Senza troppo esagerare con le estrapolazioni, ricordo che nei campi di concentramento sul braccio dei deportati non veniva tatuato il loro nome, ma un numero. Domani l’uomo 45983018 e la donna 57226111 chiederanno all’anagrafe il numero da dare al figlio appena nato.

     
MR - Il signor José comincia la ricerca della donna sconosciuta grazie a «un’illuminazione»: apre la «piccola porta» proibita che dà sulla Conservatoria Generale, entrando così per la prima volta negli archivi della sua vita intima. Sarà attraverso la ricerca della donna sconosciuta che scoprirà lo sconosciuto che egli stesso è. Ma l’uomo è dialogo. Per poter aprire la «piccola porta» che dà su se stesso, ha bisogno al contempo di aprire la porta che dà sulla strada. Tutta la differenza tra la sua Conservatoria Generale e la Biblioteca di Borges consiste nel fatto che quest’ultima non possiede né porte né finestre, nessun individuo vi cerca un libro particolare, sconosciuto. Il modello borgesiano ha forse influenzato la redazione di Tutti i nomi?

    
JS -   Leggo Borges da moltissimi anni e lo apprezzo a tal punto che il suo virtuosismo narrativo non mi stanca. Tuttavia la presenza tutelare che l’autore di Tutti i nomi riconosce in questo libro non è la sua, ma quella di Gogol’. Il mio insignificante Signor José è la reincarnazione dell’insignificante Akakij Akakievic del Cappotto, senza dimenticare, ovviamente, alcune costanti nella costruzione endogamica di certi personaggi del mio mondo romanzesco. Il signor José è parente prossimo del revisore Raimundo Silva de La storia dell’assedio di Lisbona e, anche se indirettamente, del pittore H. di Manuale di pittura e calligrafia. Allo stesso modo la moglie del medico di Cecità è sorella gemella di Blimunda di Memoriale del convento... La ragion d’essere del frutto è alle sue radici.

     
MR - L’altro nome che viene subito in mente leggendo Tutti i nomi è quello di Kafka: l’assenza di nomi; l’ambiente spoglio della Conservatoria; il potere inaccessibile i cui meccanismi obbediscono a leggi che non hanno nulla a che fare con gli interessi degli uomini; il fatto che la realtà della Conservatoria – come quella del Castello – sembra contenere tutta la realtà dei personaggi che vi lavorano. Alcuni interpreti della sua opera – alla stregua del resto di un buon numero di esperti di quella kafkiana – hanno definito i suoi romanzi come delle allegorie. È d’accordo con questa definizione? Ma l’allegoria postula che il mondo che sto descrivendo è un cammino didattico alla scoperta di un altro mondo. Il romanzo non è piuttosto un tentativo, un essai di cogliere delle situazioni concrete dell’esistenza umana?        

       Non c’è contraddizione, o non sempre, tra allegoria e, per riprendere le sue parole, il «tentativo di cogliere delle situazioni concrete dell’esistenza umana». Il problema sorge quando si classifica come allegoria una determinata opera letteraria (semplice trasposizione di convenzioni, l’allegoria in pittura è molto meno ricca di senso) e si finisce per non cercare più in profondità. È il limite di tutte le classificazioni. Ci si dimentica di sottolineare che ogni opera mediamente problematica ha il dovere di superare i limiti che, a un primo esame, sembrerebbero i suoi. Dire che Kafka ha scritto delle allegorie, significa costringerlo dentro una camicia di forza. Quanto a me, la tendenza accentuata alla digressione che si manifesta in modo irresistibile nei miei romanzi, è un chiaro indizio della tentazione di cui soffro, quella saggistica...

     
MR - Credo che si possa leggere Tutti i nomi anche come una storia d’amore. Ma che cos’è l’amore se si ama una donna che non si conosce? Possiamo davvero amare ciò che non conosciamo?

     
JS - Neppure Dio si conosce, eppure c’è chi lo ama. Il Cherubino mozartiano delle Nozze di Figaro è disposto ad amare qualsiasi donna ancor prima di conoscere l’amore. Così si comporta anche Don Chisciotte, quando conosce Aldonza Lorenzo (sarebbe stato lo stesso se avesse scelto qualsiasi altra ragazza di campagna) per farne la sua irraggiungibile Dulcinea. Più scettico, o semplicemente più moderno, il Signor José ammette che l’incontro con la donna sconosciuta (nel caso si verificasse) sarebbe la fine dell’amore. Il Signor José ama un ideale, o meglio, un’immagine femminile che nasce e si forma nel corso della sua ricerca. O ancora meglio: è tale ricerca, apparentemente priva di senso, che costruirà progressivamente il suo sentimento amoroso. Più spesso di quanto si creda, quel che amiamo non è altro che quel che abbiamo voluto amare.

    
MR -   A parte l’assenza di nomi che, a mio avviso, è in ogni caso un approfondimento ulteriore della sua estetica romanzesca – il romanzo come grande scena acustica in cui personaggi senza nome, senza volto, senza passato, vengono riconosciuti grazie alla loro voce, grazie al timbro della loro voce –, mi sembra che con Cecità e con Tutti i nomi lei abbia attraversato una frontiera, abbia cioè, alla stregua del suo Signor Josè, aperto la porta che dà sull’altro versante della sua opera...

     
JS - Ne ho preso coscienza quando ho cominciato a scrivere Cecità. Fino a Il vangelo secondo Gesù Cristo ero intento a descrivere una statua, cioè la superficie della pietra. Da Cecità mi sono reso conto che cominciavo a penetrare all’interno della pietra. Credo di aver effettivamente attraversato una frontiera. Temo che le mie storie stiano diventando sempre più aride, essenziali, e al contempo è come se lo desiderassi... Non potrei più riscrivere un romanzo come Memoriale del convento, forse (e la considero una compensazione) perché all’epoca ero troppo giovane per scrivere Tutti i nomi...

      
MR - All’inizio del nostro dialogo ha affermato: «Io probabilmente non scrivo romanzi, ma saggi con alcuni personaggi. Forse perché Montaigne è una delle mie letture più costanti». Pensa che il saggio, proprio perché esplora un territorio dove né la verità scientifica né quella filosofica dominano completamente, abbia uno statuto assai prossimo a quello del romanzo?

      
JS - Direi che il territorio del saggio si sovrappone da una parte a quello della filosofia e dall’altra a quello del romanzo, per cui la riflessione appartiene al saggio, e non solo per una disposizione topografica. Come romanziere – quel che in fondo sono – mi piace pensare che il romanzo e il saggio, benché diversi per metodi e procedimenti, percorrono, nel loro continuo interrogare l’uomo, la stessa via prospettica, cioè quella di una minuziosa rimozione degli ostacoli, dei muri, delle corazze, degli schermi, alla ricerca di una chiave, anche se non si è mai sicuri di trovare la porta che quella chiave è in grado di aprire.

     
MR - Ho la sensazione che senza questa ricerca, irriverente, profondamente individuale e umana, propria del saggio e del romanzo, il rischio è quello di ricadere nel commento scolastico o, in assenza di Dio, nell’accumulazione informatica. Che ne pensa?

      
JS - Il commento scolastico era già una forma di accumulazione, come lo è stato, in tempi più recenti, la glossa marxista: ammasso meccanico di termini, assenza di tensione interna, silenzio dell’io riflettente. Oggi bisogna vedere dove ci porterà la più radicale delle accumulazioni, quella informatica. Forse continueremo ad assistere all’intorpidimento dello spirito come alla negazione stessa dell’esistenza e della sua ragion d’essere. Forse, ancora una volta, la voce dell’io pensante sarà soffocata dal nulla che lo abita.

     
MR - Ogni scrittore, consapevole della sua arte, si crea nel tempo una famiglia d’autori. Grazie alla relazione personale tra uno scrittore e la sua cerchia di colleghi di ogni tempo, si possono aprire nuove prospettive sulla letteratura mondiale del passato e del presente e disegnare nuove genealogie estetiche. Quali sono, nel suo caso, i tre o quattro membri più importanti di questa famiglia acquisita?

     
JS - La mia «famiglia» d’autori – con la quale, ovviamente, non ho alcuna stretta parentela (appartengo, è vero, alla stessa categoria professionale), se non quella di un cugino di sesto o settimo grado – è formata da cinque genii: Gogol’, Kafka, Montaigne e Cervantes. Il quinto è un gesuita portoghese del XVII secolo, padre Antônio Vieira, il quale ha scritto soltanto lettere e sermoni. Tuttavia, mi rendo conto che non è tanto importante nominare questo o quello, quanto verificare se qualcuno di loro sia effettivamente presente nel mio pensiero e nella mia opera letteraria o, in altri termini, se la «famiglia» che ho costituito non sia il risultato di una mia personale ambizione di far parte di un albero genealogico, ambizione che una rapida analisi del sangue potrebbe smentire sul campo...  

     
MR - In Tutti i nomi si parla molto di morte. È vero: si parla di morte per parlare della vita. Alla fine delle sue ricerche, il protagonista incontra la donna sconosciuta, ma non può vederla perchè è morta. Tuttavia, la sua morte gli insegna a vivere. Il signor José è diventato un individuo, qualcuno che ha imparato a dialogare con se stesso, con gli altri e con i morti. Un individuo, le chiedo, come una civiltà, può morire se cessa di dialogare con i morti?

     
JS - Nessuna civiltà ha dialogato così tanto con la morte come quella dell’antico Egitto, eppure essa si è spenta come se fosse stata risucchiata dall’oggetto stesso del suo dialogo. Il dialogo a cui faccio riferimento riguarda non tanto i morti quanto un passato di esseri viventi, dove la memoria di ciò che è stato pensato, detto, sentito e compiuto è sempre presente in uno spazio e in un tempo nei quali siamo in grado di vedere gli uni e gli altri – i vivi e i morti – contemporanei di tutti e di tutto. In altre parole: riunire i due archivi in uno solo...

     
MR - In Tutti i nomi, il dialogo con  i morti non è soltanto una questione di memoria. Il Signor José ha bisogno di tutta la sua immaginazione per andare in fondo alla sua ricerca. Per dialogare con qualcuno che non si è mai conosciuto, ci vuole immaginazione, un’immaginazione particolare, capace di costruire all’interno di un individuo un’immagine personale di un altro individuo...

     
JS - La memoria sta per morire. Si dice che i popoli felici erano quelli che non avevano Storia. Domani si dirà che la felicità dei popoli è il risultato di un’amnesia generale.

    
MR -   Mi viene in mente che il Signor José, parlando con un altro personaggio, afferma, verso la fine del romanzo, che la «metafora è sempre stato il miglior modo di spiegare le cose». Con quale metafora si potrebbe illuminare la situazione attuale dell’Europa?

      
JS - Dei ciechi che guidano altri ciechi, come nel quadro di Breugel il Vecchio. Ma io non sono certamente meno cieco di loro...

       Parigi, Venezia,  Rejkyavík


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