martedì 1 febbraio 2011

la mia ossessione? non la letteratura ma la vita - intervista a Enrique Vila-Matas

     intervista di Ana Ciurans


la mia ossessione? non la letteratura ma la vita

La parte migliore della biografia di uno scrittore non è il catalogo delle sue avventure, ma la storia del suo stile. Non a caso, questa la frase di Vladimir Nabokov che campeggia sul sito di Vila-Matas alla voce biografia. Perché per lo scrittore, traduttore, giornalista, saggista e adoratore della poesia, Enrique Vila-Matas stile, vita e letteratura non sono scindibili. Nato a Barcellona il 31 marzo 1948 e con un curriculum letterario da brivido (in Spagna i premi Herralde e Rómulo Gallegos, in Italia Flaiano, Elsa Morante e Mondello) di lui colpiscono la semplicità e la disponibilità, anni luce da alcuni ombrosi autori di culto. Abbiamo parlato di Dublinesque e solo quando gli ho chiesto del prossimo romanzo ha messo le mani avanti: impossibile, raccontare qualcosa sarebbe come suicidarlo! E a un tratto mi da del lei: e non vuole che succeda, vero?


Samuel Riba, l’editore protagonista di Dublinesque, il tuo ultimo romanzo, vive a Barcellona ma crede che New York sia forse l’unico posto dove potrebbe essere felice, rincominciare. Va a Lione per assistere a un convegno di editori ma non esce dalla stanza dell’albergo. Dopo un sogno premonitore si reca a Dublino per compiere una sorta di destino. Nonostante viva come un hikikomori e sua moglie stia diventando buddista. Occidente. Oriente. Sembra come se Riba fosse alla ricerca più di un tempo che di un luogo…
Va alla ricerca di un centro. Ricordi la canzone di Battiato Centro di Gravità Permanente? Ecco, lui cerca più o meno quello, credo, e dico “credo” perché con Riba non si sa mai. Cerca il centro del mondo, del suo mondo. E quel centro è un luogo e mai un tempo. Un luogo, forse, non geografico. Lungo tutto il romanzo Riba lo cerca e in questa ricerca s’installa di continuo in posti privi di gravità, fino alla fine, in cui lo trova. Ma quel centro è l’ultimo. Ed è anche la fine del romanzo, ovvio.



A proposito di tempo, da Gutemberg a Google. Vivere per raccontarla. Che cambiamenti pensi che l’era digitale porterà con sé? Li vivi con un certo entusiasmo o sei, come Riba, scettico e poco fiducioso?
Il futuro non esiste, è una figura retorica. Ci sono persone che sanno sempre quel che sta per accadere ma non è il mio caso. Ignoro se il processo di progressivo rincoglionimento dell’umanità sia inarrestabile o no. In ogni caso, preferisco vedere il futuro con entusiasmo. In ogni caso non lo vedrò, mi dico… Dunque meglio approcciarlo con spirito positivo, almeno riesco a rimanere di buon umore. A differenza del mio personaggio, Riba, che confonde la fine del mondo con la sua fine personale.

Cosa pensi dell’editoria di oggi? Credi che, effettivamente, siamo arrivati alla fine del lettore di talento, dell’editore letterario, dell’autore?
Nella maggior parte del mondo editoriale esiste lo stesso disorientamento che c’è nel mondo della politica e della finanza. Crediamo nelle grandi cospirazioni (perché è molto bello e romanzesco), ma temo che l’unico complotto esistente sia la pura e semplice stupidità, pura e semplice incompetenza.

Gli scrittori deludono i lettori, ma succede anche il contrario (…) quando in loro cercano solo la conferma del fatto che il mondo è come lo vedono. Il mondo come lo vede Vila-Matas è la metafora della letteratura e non il contrario. E quindi se non è facile vedere il mondo come lo vide Kafka, non lo è neanche vederlo come lo vedi tu. Dai e chiedi molto al lettore…
Gli do l’opportunità di immaginare, di completare quello che legge, di pensare autonomamente mentre legge i miei libri. Se il lettore attivo sparisse, la nave andrebbe a picco. Puoi immaginare un mondo di lettori passivi? Ecco, la fine.

Dublinesque è un ingranaggio riuscito e ambizioso. Tutto combacia e nulla è lasciato al caso. Si ha comunque la sensazione di avere a che fare con un enigma. Tra l’altro, a causa del narratore quasi onnisciente che solo un paio di volte fa capolino lasciandoci a bocca aperta. A causa di quello scrittore, Vok, sconosciuto al punto di farci dubitare della sua esistenza. A causa dei fantasmi che girano per le pagine. Credi che dal punto di vista della fusione obiettivi/risorse narrative, Dublinesque sia il tuo lavoro più riuscito?
Si vede che sei una lettrice attiva. Mi parli precisamente di quello che più m’interessa oggi di Dublinesque, tutta la zona d’ombra che si colloca nella parte finale del romanzo, i suoi misteri non risolti. Dublinesque sarebbe un meccanismo d’orologeria perfetto se non fosse che l’autore, a quanto pare, ha lasciato alcune cose in sospeso e precisamente le più inquietanti. C’è persino chi crede che nelle ultime pagine Riba sia morto. Se così fosse, possiamo perdonarlo.

In Dublinesque la letteratura si dà appuntamento, sono moltissimi gli autori citati (Joyce Beckett, Nabokov, Gracq, Larkin, Celan, Strand, Auster, etc.) ma c’è solo una scrittrice chiamata in causa credo di ricordare, Amy Hempel. Ce ne sono altre che ti piacciono?
A occhi chiusi: Fleur Jaeggy, Cristina Fernández Cubas, Alice Munro, Patricia Highsmith, Katherine Mansfield, Clarice Lispector, Sophie Calle, Nina Berberova, Idea Vilariño (lei è citata in Dublinesque, in modo essenziale), Marilyn Krysl, Grace Paley, Elizabeth Tallent (conosci il suo racconto No One’s a Mystery?), Guadalupe Nettel, Chiara Valerio, Isak Dinesen…


L’ossessione di ogni editore è trovare il grande autore, di talento, definitivo. Un editore finisce per diventare il suo catalogo. Ma, qual è l’ossessione di ogni scrittore? Finisce per diventare la sua opera?
Nei miei romanzi non ha importanza se il personaggio si dedica a mettere timbri in uno sportello o se è un cospiratore internazionale. Ciò che importa è la sua ossessione. I miei personaggi sono eroi –scrittori o editori, oddio, editori solo nell’ultimo romanzo – che girano intorno a un’ossessione. Appena ho finito di scrivere il libro, dimentico subito l’ossessione che quel libro contiene. Perché così velocemente? Perché tale ossessione era solo un pretesto per scrivere sul mondo e sulla vita. A molte desidererei avere un’ossessione così fissa da permettermi di diventare un grandissimo narratore, ma non ce l’ho. E quindi devo crearmela. Forse quel che mi ossessiona è precisamente il mondo, la vita. Mi piace parlare di tutto. E mi piacerebbe che un giorno qualcuno mi spiegasse tutto, assolutamente tutto. Ricordi quel racconto di Kafka Descrizione di una battaglia?: Mi racconti tutto, dall’inizio alla fine. Non voglio più sentire frammenti. Mi racconti tutto, dall’inizio alla fine. Non sono disposto ad ascoltare meno. Sì, decisamente il mondo è la mia unica ossessione.


Gli elementi essenziali del romanzo del futuro sono, secondo l’editore Riba: intertestualità, relazioni con l’alta poesia; coscienza di un paesaggio morale in rovina; leggera superiorità dello stile sulla trama; scrittura vista come un orologio che avanza. Insomma, sembra il ritratto di Dublinesque. Convieni con l’opinione di Riba?
Si tratta di una teoria che ho scritto prima di Dublinesque. Dopo, senza rendermene conto, ho scritto Dublinesque seguendo queste premesse teoriche. Credo che ogni romanzo fondi la propria teoria per poi distruggerla. Il libro che sto scrivendo ora, per esempio, si basa su una teoria diversa.


Eccoci a Joyce e, sopratutto, a Beckett. Il capitolo sei di Ulysses è la cornice dove si celebra il requiem per il tramonto di un’epoca, inserito in Dublinesque, formante parte, in questo senso, della sua struttura. Con Beckett, al contrario, ho avuto una sensazione diversa. Che la sua presenza nel romanzo abbia ispirato una disgregazione dell’identità personale, un omaggio alla sua teoria secondo la quale non c’è nulla da comunicare, un processo di sottrazione, di asciugatura della tua scrittura.

Sono sempre stato più vicino a Beckett che a Joyce. Di fatto, il terzo e ultimo capitolo di Dublinesque, è per me il più interessante, forse perché mi sono sentito più libero di scrivere, forse perché avevo già costruito – nel bene e nel male – tutta la fiction e mancava solo la passeggiata finale, dove potevo permettermi le licenze che mi mantengono ancora vivo quando narro. È capitato che qualcuno, qualche volta, abbia scritto un intero romanzo solo per poter introdurre – far scivolare – una frase, di vitale importanza per lui. È il caso di Dublinesque? Se ora ti dicessi di sì, ti obbligherei a rileggere il romanzo in un’altra chiave. Ma non te lo dirò, preferisco semplicemente che tu pensi che il romanzo ha, infatti, altre chiavi di lettura, che tu cerchi quella chiave segreta.

Chi o che cosa significa per Enrique Vila-Matas quella “gran puttana” della letteratura?
Povero figlio di puttana, disse amorevolmente un’amica di Scott Fitzgerald durante il funerale di Scott Fitzgerald. Povero figlio della letteratura, avrebbe potuto dire anche questo, no? Ma l’ho detto per rispondere alla tua domanda quando in realtà una risposta non ce l’ho. Ci sono cose che metto nei romanzi senza sapere il loro significato, sperando arriverà un giorno in cui lo capirò. Come la chiave segreta. Spero, un giorno, di essere il primo a sapere.




Blow up  febbraio 2011

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