giovedì 5 luglio 2012

femminicidi - di Ezio tarantino

  Ezio Tarantino -


Femminicidi 
4 luglio 2012


In un’intervista rilasciata poco prima di morire Roberto Bolaño disse di stare scrivendo un romanzo sulla catena di omicidi di donne che martoriava, da più di dieci anni, la città Messicana di Ciudad Juarez.
382, secondo le Nazioni Unite, le donne, molte delle quali bambine, uccise nella cittadina ai confini con il Texas, che Bolaño, in quella che ora costituisce la quarta parte (“La parte degli omicidi”) di 2666, forse il suo capolavoro, ribattezzò Santa Teresa.
Ciudad Juarez per Bolaño è l’emblema dell’inferno, “la nostra maledizione e il nostro specchio, lo specchio inquieto delle nostre frustazioni e della nostra infame interpretazione della libertà e dei nostri desideri”.
Bolaño racconta la lunghissima sequenza di omicidi con lucido e disperato distacco: ne esce una Spoon River atroce e insostenibile, un’ossessiva iterazione di crudeltà, referti necroscopici, squarci di vite normali spazzate via da una cieca insensatezza senza scopo e senza movente. Una devastazione maniacale che esprime, senza aggettivi né spiegazioni, il distillato più puro della violenza umana. In qualche caso gli autori degli omicidi vengono smascherati, ma si tratta di eccezioni. Il più delle volte la morte colpisce senza un perché e i delitti restano insoluti. Anzi, con un unico perché: perché la vittima è una donna.

Raggiunta l’ultima pagina della “parte degli omicidi” manca il respiro, si vorrebbe trovare una via d’uscita, trovare un filo logico, riscattare il destino infame coronando la sofferenza con una redenzione almeno postuma e salvifica, ma non è così. Si rimane fragili e inconsapevoli, annichiliti, arresi di fronte all’impossibilità di capire.
Le donne, ancora oggi, anche (soprattutto?) in Italia muoiono per mano dei loro mariti, ex mariti, amanti, fidanzati. Gli uomini afferrano la prima arma bianca che gli capita sotto mano (un matterello, un coltello da cucina, elementi di per sé innocenti, fatti per la pacifica convivenza quotidiana) e scaricano tutta la loro frustrazione sulla loro donna.
Una strage: 54 a maggio, a fine giugno erano già 63 (fonte: http://femminicidio.blogspot.it/). Una mattanza messicana che sembra non avere fine (a parte l’indignazione delle associazioni e le cronache giornalistiche non c’è nessuno che raccolga le storie di queste vittime e le racconti, una per una, obbligandoci, come fa Bolaño, a implorare pietà, a condividere – per il tramite della letteratura – l’insopportabile dolore?).
Senza contare gli innumerevoli casi di violenza che non arrivano al delitto (vedere qui) ma che della tragedia sono il primo, qualche volta lunghissimo atto.
Una cosa che si sente dire spesso: la violenza del maschio che ritiene la donna un oggetto di sua proprietà. Ma l’uomo maschio, anche il più intrinsecamente violento, non tratta, e non ha mai trattato in passato, in questo modo un oggetto di sua proprietà a cui tiene: la macchina, la moto, il cavallo, il fucile. L’uomo maschio ha cura della macchina (la porta dal meccanico), della moto (la lucida), aveva cura del cavallo (lo strigliava e gli dava la biada) e del fucile (lo ingrassava amorevolmente). La differenza ovviamente è che la macchina, la moto, il cavallo e il fucile non rivendicano una loro libertà. Sono funzionali al suo bisogno. Non avanzano richieste e non disubbidiscono. La donna è oggetto fastidiosamente recalcitrante ad accettare la sua natura di oggetto.

In realtà la violenza precede la ribellione, non scaturisce dalla frustrazione, la violenza è a prescindere. La donna amata (amata, quantomeno, dello stesso amore che il maschio riversa sulla moto o sulla squadra del cuore) è allo stesso tempo, o proprio per questo, schiava. Il piacere perverso di fare soffrire non lo si può esercitare su chi poi non soffre veramente. Perciò l’amore per la macchina o per il cavallo è libero e onesto. L’amore per la donna è puro distillato di energia radicale, è pura natura, mondata di qualunque fastidioso processo culturale evolutivo.
Ma l’omicidio è qualcosa che va oltre l’esercizio per quanto ignobile della violenza fisica e psicologica della vita quotidiana. Cercando di non cadere nella banalità, chiedersi cosa slatentizzi in un modo così reiterato e parossistico una pulsione che nella maggior parte degli esseri umani resta un’ombra, un fantasma notturno, una perversione passiva o una rabbia innocua o una mania compulsiva, o persecutoria, o autodistruttiva, non mi pare una domanda priva di senso.

Cosa deve succedere perché il maschio si trovi a un certo punto a non avere altra soluzione che oltrepassare la linea d’ombra del contratto sociale che impedisce alle persone di uccidersi ogni volta che ne avrebbero voglia, e lanciarsi nel vuoto cosmico di un omicidio? Cosa c’è di così assolutamente intollerabile da non poter far diversamente che cancellare tutto (anche se stessi)? Far soffrire la propria donna attraverso umiliazioni, violenze, ricatti ha in sé qualcosa di barbaramente vitale. Uccidere no. Uccidere è un controsenso, è la rinuncia assoluta anche alla volontà di dominare l’altro, è chiudere il sipario e sotterrarsi nel silenzio della colpa. Si tratta solo una patologia individuale? E se non è così questa sarebbe un’aggravante o una giustificazione?

Uccidere non è facile. Ci vuole una disperazione surreale, bisogna arrivare al punto in cui la vita non esiste, il mondo non esiste, non esiste relazione possibile, esistono solo due entità e  solo una via d’uscita. La morte dell’altro diventa il solo prezzo della illusoria liberazione da un incubo.
E’ facile dire: quello non è amore.
Invece io mi domando di quale mistura potenzialmente deflagrante sia composta la chimica dell’amore, sin dal principio.

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©  Ezio tarantino



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